Luce e Intelletto
GIUSEPPE
PERRELLA
NOTE E NOTIZIE - Anno XIX – 18 giugno
2022.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]
Il presente scritto può considerarsi un rapporto
sintetico di una riflessione sviluppata in seno al Seminario sull’Arte del Vivere
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life Italia”. Dopo “Essere
e Senso” di Monica Lanfredini pubblicato tra le “Note e Notizie” del 4 giugno,
e in ideale prosecuzione di quel saggio, si propone un breve studio sui valori
di senso evocati dall’esperienza della luce e custoditi dalla parola, particolarmente
in quello spettro di significati che si ricollegano per un estremo all’essere
e per l’altro all’intelletto.
1. La luce nella realtà presente è
compresa grazie alla scienza ma rimanda al fascino della storia antropologica
del suo concetto. La luce, consentendoci di vedere, costituisce
condizione prima e necessaria dell’esperienza umana, tanto del singolo nell’istante
presente quanto dei popoli nella diacronia della storia. Ogni ethos, ogni
abitare umano in una dimensione mentale, ha un suo antecedente materiale nell’essere
in un luogo fisico che conosciamo nelle sue forme, nei suoi colori, nei suoi
toni grazie alla visione consentita dall’illuminazione: indissolubilmente
legata al ruolo e al senso della percezione visiva, la luce è tra i presupposti
principali della vita.
Oggi
siamo abituati a pensare alla luce, in qualità di ente fisico, come a un
fenomeno elettromagnetico di natura corpuscolare e vibratoria in grado di
attivare le due classi di recettori retinici ed essere così percepita dall’occhio,
dal quale si dipartono le fibre delle vie ottiche che raggiungono il cervello,
consentendo l’elaborazione di quell’informazione da parte di trentadue aree della
corteccia cerebrale. La fisica della luce e la neuroscienza della percezione
visiva sono intimamente connesse, perché sappiamo che l’oggettività del
fenomeno luminoso sarebbe poca cosa senza un percipiente, senza l’occhio nostro
o di un animale che ne legga la capacità di rivestire lo spazio e svelarne i
contenuti. Con l’istruzione scolastica oggi è conoscenza comune ciò che Maxwell
aveva compreso già nel 1865[1], ossia che in termini fisici le
onde elettromagnetiche si distinguono per frequenza e lunghezza d’onda in una
gamma continua che non indica null’altro se non i caratteri che possiamo
rappresentare in forma grafica e dati numerici, ma il fatto che una parte dello
spettro di frequenza costituisca la luce è dovuto alla sua
percettibilità[2]. Infatti, in ordine di frequenza
crescente, attualmente riconosciamo le onde radio, le microonde, la radiazione
infrarossa, la luce propriamente detta, la radiazione ultravioletta, i raggi X
e i raggi gamma.
Per
gli uccelli e per altri animali la radiazione ultravioletta è luce, perché
hanno fotorecettori retinici in grado di percepirla, mentre per noi è solo una
nozione scientifica; questo esempio è un argomento a sostegno del senso
specificamente umano dell’esperienza della luce, che ha nella comune radice
biologica di tutti i popoli la ragione della sua universalità.
L’efficacia
da sempre suggestiva del concetto di luce è testimoniata dall’uso metaforico
che si ritrova fin dai tempi più remoti negli scritti degli autori greci e
lungo tutto il corso storico, fino al “secolo dei lumi” e agli innumerevoli
episodi di enlightenment o “illuminazione” riferiti
dai media internazionali dei nostri giorni, presso i quali si abbonda nell’uso del
vocabolo in uno spettro che va dalla politica internazionale, per indicare la
meritoria intelligenza di una questione, alla cronaca degli sport di squadra,
per definire una soluzione di gioco insperata e vantaggiosa.
2. Le tracce antiche evocano la dimensione
di pensiero in cui si forma il concetto di luce che poi diventerà
matrice simbolica. Il
metodo fra noi consueto di studiare l’etimo di una parola per risalire all’esperienza
che l’ha generata, si rivela particolarmente utile quando si tratti di termini verbali
riferiti a vissuti naturali fondamentali e universali che, in quanto tali, trovano
diretta rispondenza in ciascuno di noi.
Il
nostro termine luce corrisponde nella lingua greca a phaos/phōs, dalla radice pha-
da cui deriva anche il verbo phainō, che
si traduce “rendere manifesto, evidente” o “mostrare”.
Dunque,
queste antiche forme verbali attengono al disvelamento della realtà operato dal
suo illuminarsi: la luce muta la notte in giorno e fa apparire alla vista
quanto è celato dalle tenebre, propriamente lo svela. Ritroviamo la
stessa impronta anche in latino, in cui i termini lux/luceo
originano dalla radice luc- che indica
l’irradiarsi della luce, non solo intesa come il risplendere della fonte, ma
soprattutto come il propagarsi che rende man mano evidente all’occhio quanto
prima rimaneva indistinto. La radice designa proprio l’esperienza della sorgente
solare che emana raggi e inonda il cielo e la terra, generando il giorno.
L’equivalenza
presso gli antichi Romani di luce e giorno è impressa come un sigillo
nelle espressioni in luci, per dire “di giorno”, ante lucem, ossia “prima che venga il giorno” e prima lux
per indicare l’alba. Ma si tratta di un’identità che viene da lontano: nel libro
della Genesi, la creazione della luce termina con queste parole: “Dio vide che
la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e
le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno”[3].
Il
testo della Bibbia ci istruisce ancora in modo esemplare sull’antica radice di
senso già presente in epoca arcaica ma, allo stesso tempo, solleva nella nostra
mente un interrogativo perfino inquietante per la coscienza di chi non si
abbandoni a una serena ma passiva lettura anagogica, circa l’entità realmente
significata dalla parola nell’espressione: “Sia la luce!”. Anche per i più
primitivi tra i popoli arcaici la luce del mondo è quella del sole, qualunque
fosse l’idea che avessero della stella attorno alla quale gira la Terra; ma il testo
biblico è chiaro e specifica che questa luce è stata creata prima di ogni astro,
e che ogni altra cosa viene dopo, quando è già attivo ed operante l’ente
radioso. Cosa si intende allora per luce?
Accantonando
per il momento il problema nei suoi termini di esegesi biblica dei credenti e
rimandando a dopo per una risposta realmente “illuminante”, rimaniamo alla
lettera del testo e al suo significato immediato: la luce non è Dio, ma è sua
diretta manifestazione perché più vicina al Creatore che al creato. Lo studio
delle radici etimologiche di Benveniste, secondo la profonda
conoscenza storica e linguistica dell’idioma indo-europeo di Gentile[4], ci aiuta nell’identificare nel
termine sanscrito adidet la radice *dei,
che vuol dire risplendere, e costituisce sorprendentemente l’origine
comune di parole che attengono alla divinità e al giorno: la sequenza semantica
deus di-es, di-vus, lo Iovis latino e lo Zeus greco, il cui genitivo
è Dios. Sì, Dio, il nome cristiano in
italiano di JHWH o Javé degli Ebrei giunge, via
latino, dal nome greco di Giove, signore della luce, del cielo, dello spazio
aperto e dei fulmini, la cui radice denominativa sanscrita nasce per designare
ciò che ai sensi o all’intelletto umano sembra risplendere.
Anche
se il peso della cultura ebraica sulle civiltà mesopotamiche e gli scambi
intercorsi nei tempi più remoti fra quei popoli non sono facili da studiare e
definire, è suggestivo il caso del dio dei Babilonesi considerato “scrittore
dell’universo”: Nabū, il cui nome deriva da Na-bi-um, che vuol dire “lo splendente”, ed è detto in
ebraico Nebô[5].
Una
differenza significativa nella concettualizzazione della luce tra le due linee diacroniche
culturali, greco-latina e giudaico-cristiana, peraltro notevolmente convergenti
nell’ampio patrimonio di metafore condivise, si rintraccia proprio nella
concezione originaria. Per i Greci la luce è principalmente quella del sole, che
rivela agli uomini lo spazio con le sue forme e i suoi colori e dalla quale
Euclide desume la sua teoria ottica e diffonde l’uso di espressioni quali riflessione,
rifrazione e angolo di incidenza. La Bibbia invece definisce la
luce come prima forma di essere[6] e, in un certo senso, definisce l’essere
stesso del creato e principalmente dell’uomo come un’evocazione alla luce[7].
Proprio
questo spunto ci rimette sulle tracce dell’esegesi cristiana del libro della
Genesi, che più sopra avevo rinviato. Dunque, la luce della Sacra Scrittura non
è quella di un astro, ma precede la creazione di ogni cosa e, conseguentemente,
indica ciò che promana da Dio e inaugura la creazione: una forma di energia primigenia,
all’origine di tutti i tipi di energia che si andranno costituendo e,
soprattutto, l’elemento che transita dall’indefinibile della sostanza divina
alla materialità delle creature. Se è questa la luce, deve avere in sé le
qualità dell’intelletto d’amore che i credenti riconoscono in una dimensione
sublime e assoluta nel Creatore e, se da lui promana, porta con sé il senso,
l’autenticità e l’essere divino all’uomo. Se la luce è questa
energia che è presso Dio fin da principio, allora ciò che porta nella
dimensione umana è Via, Verità e Vita, si identifica con
il Logos, il Verbo, la Parola e, quando si incarna, entra nella storia come
Gesù di Nazareth detto il Cristo o Messia. E questo ci dice Giovanni nel suo
Vangelo: “…veniva nel mondo la luce vera”[8], e ci riporta quanto Gesù stesso
afferma: “Io sono la luce del mondo”[9].
L’identificazione
del Figlio dell’Uomo con la Sophia, la sapienza e la saggezza accostate alla
phronesis greca, indica già una traccia per riconoscere un collegamento
tra luce e intelletto nella cultura occidentale.
Ritornando
a una più ordinaria dimensione di significazione, l’espressione che accomuna
cultura classica e cristiana “venire alla luce”, per riferirsi alla nascita, in
origine non indicava il semplice emergere dal buio uterino all’esterno
illuminato, ma proprio l’entrata nella scena del mondo, la comparsa nel giorno
della vita comune, nello spazio di conoscenza prima familiare e poi sociale che,
nel riconoscimento reciproco, costituisce l’identità e crea il presupposto
perché ciascuno possa eseguire o esibire la propria performance esistenziale,
sia che rimanga nel teatrino domestico sia che acceda a una rappresentazione sul
palcoscenico della storia.
3. La Luce è la Parola da cui emana
la forma, secondo il Fons Vitae di Gabirol. Siamo abituati a pensare al Medioevo come a un’epoca
di esclusiva cultura cristiana, ma il pensiero del popolo che non aveva riconosciuto
in Gesù Cristo il Messia annunciato da Isaia e la vera luce del mondo,
continuava in quei secoli a produrre opere speculative non trascurabili. Un
poeta ebreo andaluso impegnato in studi di filosofia e teologia di nome Shelomoh ben Yehuda[10] Ibn Gebirol o Gabirol (1021-1058), conosciuto
anche come Avicebron secondo la versione romanza del
suo nome, scrive un testo fondamentale per la filosofia ebraica, un saggio nel
quale si legge una concezione della luce che ha influenzato tante generazioni
nel corso dei secoli: il Fons Vitae.
Fedele alla sua prima identità di poeta, Gabirol non procede seguendo un ragionamento che prenda le
mosse da dati di certezza e si sviluppi attraverso una logica deduttiva intrinsecamente
coerente, come nella tradizione cristiana, ma si basa sull’intuizione per conferire
plausibilità alle sue interpretazioni creative. Ciò che emana dal Creatore deve
essere una sorta di sostanza unica, qualcosa che si potrebbe definire “intelletto
divino”: se le cose stanno così, allora si giustifica che i grandi concetti
simbolici dei fenomeni, che secondo gli uomini procedono da Dio, si
identifichino tra loro, in una soluzione razionalmente strana in quanto
indimostrata, ma letterariamente efficace perché di forte impatto suggestivo: “La
Luce è la Parola da cui emana la forma”[11]. Invece
di spiegare, Gabirol tende a impressionare.
La
parola prima, quella della creazione, si identifica con la luce
che genera da sé la forma, in una sorta di catena di identità. Ma l’identificazione
tra luce e forma induce Gabirol a immaginare che la
forma si comporti come luce e, in quanto tale, agisca sul fondamento: “…la
forma risplende su di esso (il fondamento) e vi si immerge, come la luce del
sole fa risplendere l’aria e la terra e vi si immerge”[12].
Il
poeta-filosofo andaluso, proseguendo nella sua articolazione creativa, sviluppa
il suo pensiero attraverso suggestioni convolute che provo qui a dipanare e
rendere in sintesi: la Parola-Forma è Luce di intelletto che,
a sua volta, emana una luce percepita dai sensi, la quale dà origine nuovamente
a forme intese quali figure di luce: appartiene infatti alla luce “di svelare
la forma dell’ente e di farla vedere, dopo che essa è rimasta nascosta”[13].
Lungi
dal contenere intuizioni sul rapporto tra energia e materia, la dissertazione
di Gabirol è un gioco di immaginazione quasi onirica,
che ci ricorda l’accostamento tra luce e fantasia degli Stoici, i quali
sostenevano la derivazione etimologica di phantasia
da phōs, la luce[14].
Le
tematiche affrontate da Gabirol sono ritenute tipiche
del neoplatonismo arabo-ebraico, come indica anche Salvatore Natoli[15], ma l’epoca e tutti i riferimenti
diretti e indiretti alla Torah ci consentono di inquadrare il Fons Vitae come un testo di autentica
tradizione giudaica.
Non
posso tacere in proposito il dubbio che sia mai esistito un neoplatonismo
arabo-ebraico e non si sia trattato semplicemente di filosofi di lingua araba
che abbiano abbandonato l’integralismo islamico e si siano aperti alla cultura
prevalente nel mondo a loro circostante; d’altra parte, è noto che l’arabo era
stato lingua veicolare anche per gli Ebrei e che testi di anatomia greca, come l’intera
opera di filosofi greci, siano stati tradotti in arabo fin dalle epoche più
remote. Si ricorda, per inciso, che la presenza di valenti medici ebrei presso
le corti europee dal Medioevo all’epoca contemporanea aveva avuto questa
origine: i medici ebrei erano più bravi perché avevano studiato la medicina
greca – bandita nell’Europa cristiana – grazie alla traduzione in arabo dei trattati
di dissezione di Erofilo ed Erasistrato della scuola greca di Alessandria d’Egitto,
e dei principali libri di medicina ippocratica[16].
Il
modo di Gabirol di concepire la luce, nel suo
rapporto reale e metaforico con la divinità e col suo intelletto, influenzerà
una parte considerevole del pensiero cristiano fino a Dante che, nella cantica
del Paradiso della Divina Commedia, fonda sulla luce le sue
principali costruzioni di immagini.
4. La “Metafisica della Luce” di Roberto
Grossatesta è un esercizio di intelletto che precorre i tempi. Roberto
Grossatesta nacque nel 1175 a Stradbroke da genitori
verosimilmente giunti dall’Italia[17],
divenuto presto professore e priore francescano di Oxford, dove aveva studiato
medicina, scienze naturali e legge, contribuì alla fondazione della scuola
universitaria francescana di Oxford nel 1224 e assunse l’incarico di rettore.
In seguito divenne Vescovo di Lincoln. Alistair Cameron Crombie,
zoologo e storico della scienza, considerò Grossatesta il vero fondatore della
tradizione del pensiero scientifico nella Oxford medievale[18].
La Metafisica della Luce[19] è in
realtà una raccolta di saggi dai testi non semplici e di scorrevole lettura in
tutte le loro parti, e la loro esegesi classica si è basata sul rintracciare nella
letteratura medievale precedente le fonti di metafore, concetti e locuzioni. In
altre parole, questi saggi sono stati considerati alla stregua di componimenti
letterari di impronta teologica, assemblati a partire da spunti e suggestioni
di efficacia evocativa sulla mente del lettore, e tali da intrattenerlo con la
piacevole esperienza di un testo gradevole ispirato a verità di fede[20]. Credo,
invece, che i contenuti giustifichino l’assunzione di un’angolazione visuale decisamente
diversa.
A me sembra, innanzitutto, che Grossatesta abbia in
mente una chiara distinzione paradigmatica tra il creato soggetto alle leggi di
natura e il Creatore costituito da una speciale energia, una parte della quale
può identificarsi con la luce. Poi, mi sembra evidente che il fondatore del
pensiero scientifico dell’Università di Oxford abbia una fiducia incondizionata
nello strumento della ragione applicato alla comprensione di linee, angoli e
figure creati dai raggi luminosi, dunque nella possibilità di concepire una
“geometria della luce”, ovvero una fisica ottica, da considerare ante
litteram se pensiamo a quelle galileiana e newtoniana, ma forse da
accostare a quella classica euclidea.
Mi sono chiesto, allora: perché non considerare la Metafisica
della Luce un testo scientifico?
Prima di provare a dimostrare la fondatezza di
questa possibilità, mi piace ricordare che Grossatesta era stato fra coloro che
organizzarono l’Università di Oxford sul modello fiorentino delle arti del Trivio
e del Quadrivio, ossia contemplando sia le materie umanistiche che quelle
scientifiche in un curriculum di formazione ideale e universale.
L’influenza del Fons
Vitae di Gabirol è evidente, sia dalla tesi che
la materia derivi dalla luce sia dall’identificazione di luce e forma, senza
contare l’identità di vedute teologiche; ma i saggi del Vescovo di Lincoln, a
partire dal De Luce, sono prevalentemente centrati su argomentazioni
dimostrative, sviluppate sul filo di ragionamenti logici, pur se prendono le
mosse dagli assunti indimostrati di Shelomoh ben
Yehuda.
È interessante seguire il modo di precedere di Grossatesta,
che prende alla lettera il testo biblico del libro della Genesi,
considerandolo alla stregua di un rapporto oggettivo degli eventi fenomenici
accaduti: “In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e
deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle
acque. Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu”[21]. Il
francescano inglese sofferma l’attenzione sul fatto che prima della luce la terra
era “informe e deserta”, in latino lui legge inanis
et vacua, ma dopo l’apparizione della luce cominciano a formarsi i corpi;
dunque, ne desume che è la luce a conferire la prima forma corporeitatis. Il sottotitolo del saggio De Luce
è proprio inchoatione formarum,
ossia l’inizio delle forme, e l’esordio dello scritto entra subito in
argomento: “Ritengo che la forma prima corporea, che alcuni chiamano
corporeità, sia la luce”. E poi, dopo una lunga e articolata argomentazione
deduttiva, conclude: “Quindi o la corporeità è la luce stessa oppure essa
agisce in quel modo e conferisce le dimensioni alla materia in quanto partecipa
della natura della luce e agisce in virtù di essa”[22].
La formazione del cosmo si può presumere che derivi
dalla propagazione all’infinito della luce. Ma, soprattutto, Grossatesta deduce
che, se la corporeità originaria si identifica col fenomeno luminoso, tutti i
fenomeni naturali possono esse ricondotti alle leggi che governano la luce. In
un linguaggio attuale diremmo che confidava di spiegare con la fisica ottica
tutta la fenomenica naturale. Per questo non meraviglia che, nel saggio su
linee, angoli e figure, afferma con certezza: “L’utilità di considerare le
linee, gli angoli e le figure è grandissima, perché senza di essi non si può
conoscere la filosofia naturale”[23].
Ma, a mio parere, l’argomento decisivo a sostegno
della tesi che l’opera sulla metafisica della luce di Grossatesta possa
considerarsi a buon diritto di carattere scientifico è sinteticamente espresso
in questa dichiarazione: “[linee, angoli e figure] sono validi in tutto l’universo
e nelle sue singole parti. Hanno validità anche nelle proprietà delle
relazioni, come nel moto retto e circolare…”[24]. Ed è
rafforzato dal dichiarato intento di determinare, attraverso la fisica della
luce, la matematizzazione conoscitiva dell’universo, anticipando di quasi
cinque secoli la celebre formula del Saggiatore di Galileo Galilei: l’universo
è scritto in lingua matematica[25].
L’errore originario, fatale nel determinare la condanna
dei saggi sulla luce dell’Oxoniano all’oblio dei moderni, è consistito nell’accettare
la visione intuitivo-creativa del poeta-filosofo ebraico.
Tra gli interpreti medievali del sapere sulla luce,
dopo Gabirol e Grossatesta, spicca una figura davvero
singolare di teologo francese, Alano di Lilla o delle Isole (1125-1202)[26], che
crede nella teologia come scienza matematica e sostiene che l’universo, in
quanto infinito non abbia un centro reale, ma solo apparente e
coincidente con la posizione dell’osservatore, secondo un ragionamento ripreso
da Niccolò Cusano e, in epoca contemporanea, da Albert Einstein. Alano, oggi
venerato come beato dalla Chiesa Cattolica, convinto che il concetto di Trinità
non possa essere oggetto di dimostrazione, sostiene debba essere immaginato e
figurato, e pertanto descrive il mistero trinitario come un fiume di luce,
e scrive: “Fonte, ruscello e fiume, sebbene siano distinti, convergono in un
sol punto … e sono un sole unico, che, simile a una fonte, supera in luminosità
il sole stesso”[27]. Anche
se questa figura, a mio avviso, non è particolarmente felice, perché non rende
il concetto delle tre Persone uguali e distinte, né per analogia né per
metafora, ebbe particolare fortuna per il suggestivo accostamento al sole e
alla sua luce.
Matilde di Magdeburgo (1212-1283), una mistica
tedesca, raccoglie tutte le sue esperienze nell’unica opera alla quale si
dedica per tutta la vita e che intitola: La luce fluente della divinità.
Quindi, dalla radice sanscrita *dei, formatasi quasi in epoca protostorica, al racconto delle esperienze
mistiche nel XIII secolo, l’associazione tra il divino e il risplendente è
ormai una consolidata realtà culturale, ma, per quanto riguarda la
rappresentazione del divino mediante la luce, nella nostra storia letteraria
non vi è stato nulla di paragonabile al Paradiso dantesco. Anche perché
quel testo ha goduto di una diffusione capillare, che ha determinato l’entrata
delle sue figure poetiche nella coscienza comune e nell’immaginario collettivo del
tempo e dei secoli a venire.
Per renderci conto dell’intensità di questo
messaggio dall’inizio alla fine della cantica, dove i beati sono corpi di luce,
leggiamo insieme le prime due terzine, avvalendoci per l’interpretazione del
primo sostantivo del primo verso di un commentatore d’eccezione, ossia Dante
stesso, che nell’Epistola a Cangrande (Ep.
XIII) illustra il significato che intendeva dare alla parola gloria:
La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.
Nel ciel che più della sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là su discende;
Dante spiega nella lettera che la gloria
esprime non la potenza o la magnificenza ma la realtà divina nell’atto di
rendersi presente nel creato e, in particolare, scrive in latino che la
gloria è il raggio divino e che la ragione ci manifesta che la divina
luce, cioè la divina bontà, sapienza e potenza, risplende dovunque.
Bontà, sapienza e potenza sono i tre attributi della Trinità[28]. Nell’Epistola
XIII, Dante precisa poi ulteriormente il senso che intende conferire alla
parola gloria, identificandola con lo Spirito Santo, lo Spirito di Dio
che riempie il mondo[29].
Tutte le cose in Paradiso sono creature di luce, che
attraversano tutta la cantica, fino al XXX canto (61-66) dove Dante vede la
riviera, ossia la sponda che costeggia il fiume di luce: e vidi lume in
forma di rivera / fulvido di fulgore, intra due rive
/ dipinte di mirabil primavera. Anna Maria
Chiavacci Leonardi, sostenuta da spunti della Vita Nuova, riconosce la
massima importanza a questi versi: “Comincia qui la visione vera e propria, la
vera e sola visione a cui tutte le altre sono ordinate, a cui ci si prepara fin
dall’inizio del poema, e forse anche da prima (cfr. Vita Nuova XLI e
XLII). Finora si è precisata la qualità dello strumento che vede (la novella
vista). Ora si affronta l’oggetto del vedere… Non vediamo ancora Dio o i santi,
ma un fiume di luce, anzi una luce in forma di fiume”[30].
L’appartenenza della luce a Dio è legata alla
creazione, dunque il senso della luce attiene alla genealogia dell’essere. Ma
in questa materia, già nel X secolo a.C., gli Ebrei avevano una chiara idea di
quale fosse la forza creatrice e a quale virtù umana sublimata e assolutizzata
potesse essere accostata. Mi si perdoni per la citazione un po’ lunga dal libro
dei Proverbi, ma credo che possa rendere in modo efficace un pensiero che
la tradizione attribuisce a Salomone, ma riflette una concezione ebraica diffusa
e tramandata per qualche millennio:
La Sapienza creatrice dell’universo.
Il Signore mi ha creato all’inizio della sua attività;
prima di ogni sua opera, fin d’allora.
Dall’eternità sono stata costituita, fin dal
principio, dagli inizi della terra.
Quando non esistevano gli abissi, io fui generata;
quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua;
prima che fossero state fissate le basi dei monti,
prima delle colline, io sono stata generata.
Quando ancora non aveva fatto la terra e i campi, né
le prime zolle del mondo;
quando egli fissava i cieli, io ero là; quando
tracciava un cerchio sull’abisso;
quando stabiliva al mare i suoi limiti, sicché le
acque non ne oltrepassassero la spiaggia;
quando disponeva le fondamenta della terra,
allora io ero con lui come architetto ed ero la sua
letizia ogni giorno,
mi rallegravo davanti a lui in ogni istante; mi
ricreavo sul globo terrestre,
ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo[31].
La Sapienza è dunque per gli Ebrei il
principio creatore generato da Dio, dal quale origina la stessa luce e poi
tutto il creato.
5. Il fuoco non è luce, è fiamma che
brucia, distrugge o consuma qualcosa per quel poco che illumina. Conoscere
i valori simbolici delle concezioni che hanno attraversato indenni una
diacronia di millenni e comprendere i contenuti dei miti è affascinante, ma non
sempre è facile. Tra le insidie spesso sottovalutate vi sono le bias
psicologiche, ossia le tendenze inconsapevoli che possono indurre chi non ne
conosca l’esistenza, e pertanto non sorvegli con vigile attenzione e imparziale
autocritica il proprio operato, a seguirle, magari forzando il senso di trame o
di fatti secondo i propri desideri.
Discutendo della luce, Salvatore Natoli parla del
fuoco narrando il mito di Prometeo, nella versione di Esiodo, che vuole il
fuoco celato dagli dei agli uomini, scoperto e trafugato dal figlio del titano
Giapeto, e poi nella versione di Eschilo, secondo cui l’uomo creatore di
uomini sottrae il fuoco agli dei per portarlo alle sue creature e renderle
divine. Natoli scrive: “Il fuoco è certo luce: è luce donata e insieme
catturata; nel fuoco l’uomo conserva la potenza della luce, ma anche ne
dispone, la produce”[32].
È qui l’errore: il fuoco non è luce; il fuoco fa
luce. Allo stesso modo in cui una grotta di giorno offre ombra e riparo dal
sole, una fiamma rischiara la notte e può riscaldarla; ma la grotta non è il
buio e la fiamma non è la luce.
Si tratta di un errore logico che consiste nel
confondere l’identità dei predicati con l’identità dei soggetti. Due soggetti
possono avere una proprietà comune, un attributo condiviso, o fare la stessa
cosa, ma non per questo sono lo stesso soggetto. Una goccia di rugiada bagna
come una goccia del mare, ma non per questo deduco che la rugiada è il mare,
come non lo è la pioggia o lo zampillo di una sorgente. Questa differenza è di
fondamentale importanza per comprendere i valori simbolici all’origine della
nostra cultura, ben distinti nella mente di coloro che ne hanno tramandato il
senso.
Nell’esperienza primordiale la luce è intesa come
giorno: un fatto universale che investe il cielo e la terra, con un valore
positivo per tutte le creature che vi abitano. Al contrario, il fuoco è esperito
come il prodotto di un evento limitato o di un’azione umana: lo si accende per
uno scopo di utilità mediante la combustione di ciò che lo genera, ossia consumando
o distruggendo qualcosa; in altri termini, l’esperienza più frequente del fuoco
è quella di un prodotto che ha un costo. Il connotato principale del fuoco
rimane la sua azione distruttiva, e non è un caso che la luce del sole che viene
dal cielo sia accostata alla grazia, mentre il fuoco venuto dall’alto, come nel
raro caso dell’autocombustione o di incendi prodotti da fulmini, sia
considerato una disgrazia.
Da molti contemporanei i miti che riguardano il
fuoco sono assimilati a quelli della luce o confusi con quelli che attengono
alla categoria della luminescenza divina, probabilmente influenzati dalla
tendenza a voler eliminare – da non credenti – la distinzione tra il Dio
giudaico-cristiano che genera la luce e le divinità pagane che, tutt’al più,
posseggono il fuoco; ma si tratta di dimensioni differenti dell’esperienza
umana, ben distinte anche in una visione antropologica laica che attribuisca
tutto ciò che attiene alla sfera religiosa alla creatività umana e alla
conservazione nell’atemporalità rituale trasmessa culturalmente.
La differenza tra un fuoco di legna, che per illuminare
efficacemente uno spazio circoscritto ha bisogno del buio, della notte, delle
tenebre e, in ogni caso, lascia il segno della cenere dove ha dato luce tagliente
capace di rischiarare solo piccole parti di persone e cose vicine, e la luce
del giorno, in cui si immerge tutta la realtà, suggerisce un’altra riflessione.
Nella pittura figurativa e paesistica, l’intonazione
del dipinto è un compito di fondamentale importanza per il pittore: dipingere
delle parti fuori tono compromette la resa e l’effetto di tutto il lavoro; tali
parti creano disarmonia e appaiono sbagliate anche alla persona meno esperta d’arte
e meno dotata di sensibilità estetica. Perché? Perché noi siamo abituati all’intonazione
omogenea, armonica e coerente conferita dalla luce alla scena naturale e a ogni
soggetto che vi appaia. In ore del giorno diverse si hanno differenti
condizioni di illuminazione naturale: dal tenue e progressivo apparire delle
tinte negli ombrosi chiaroscuri alle prime luci dell’alba, all’intensità netta e
satura dei colori del giorno pieno, fino alla calda e dolce atmosfera cromatica
del tramonto; ma, in ogni caso, tutto è immerso nella stessa luce.
Non molti sanno che il greco antico armos, ossia spalla, da cui il latino armus (e l’inglese arm per braccio)
proveniva dalla radice ar-, che
indicava la giuntura perfetta, ed era inizialmente del gergo anatomico,
riferendosi alla diartrosi scapolo-omerale, in cui la testa dell’omero è
perfettamente adattata alla cavità glenoidea della scapola, all’interno della
quale ruota consentendo tutti i movimenti del braccio. L’adattamento preciso e
funzionale dei due capi articolari dell’armos è
chiamato armonia, e diventa ben presto prototipo e paradigma, dando
luogo alla personificazione nella dea Armonia e alla designazione di una
condizione di equilibrio tra forme naturali o artificiali, di bilanciamento
gradevole o funzionale tra componenti astratte o concettuali, come in uno stato
mentale o in un rapporto sociale.
Armonia, per i Greci che ebbero nella misura la
loro cifra culturale, costituisce un tropo artistico e filosofico, oltre che un
ideale politico. La luce, creando una condizione che accomuna le parti rendendole
adatte a stare insieme per una coerenza tonale, può considerarsi un fattore
armonizzante.
La luce, producendo forme, colori e toni
chiaroscurali, genera armonie evidenti o nascoste, straordinarie o consuete e
perfino banali, ma costitutivamente presenti in ogni scena naturale, in ogni
realtà percepita del mondo diurno, e conferisce ai corpi di natura qualità
percettiva con gli stessi modi, secondo gli stessi principi e destando la
medesima meraviglia dell’inizio dei tempi.
6. Intelletto e intelligenza: poche
parole funzionali alle riflessioni sulla luce. Comunemente
si ritiene intelligente chi risolve un problema; in realtà, nella maggior
parte dei casi, trovare la soluzione di un problema logico o matematico è prova
di un’abilità applicativa circoscritta al tipo di quesito: il solutore sceglie quello
giusto fra criteri, regole, procedure, meccanismi o teoremi che conosce. Se per
intelligenza si intende un’abilità più generale di comprensione spontanea e di
uso efficace delle multiformi risorse della cognizione, sicuramente la capacità
di porsi un problema non ancora codificato come tale è di gran lunga più
probante e significativa; ma tale abilità è più difficile da verificare e
misurare.
In entrambi i casi, tuttavia, si rimane a un
giudizio della facoltà concepito su un modello lineare dell’abilità di decodificare
o codificare in termini logici, come quando, ad un livello più elementare, si
stima la capacità di qualcuno di comprendere un nesso causale o un nesso
condizionale tra proposizioni in un filo aristotelico. Ma esiste anche un
altro modo di concepire il potere intellettivo umano: la capacità generale di
una mente di cogliere il senso delle cose, riconoscere le priorità, trovare
soluzioni a problemi che altri non si sono ancora posti, decifrare un contesto
sociale complesso, inferire correttamente lo stato d’animo delle persone, le
loro intenzioni inespresse, i sentimenti che provano, gli interessi che
perseguono. In parte, questo modo di concepire l’intelligenza come facoltà
generale coincide con quello straordinario tropo del pensiero greco arcaico
costituito dalla metis preplatonica[33], ma in gran
parte, nella sua formulazione moderna, focalizza l’attenzione sull’interazione
funzionale fra grandi reti encefaliche la cui connettività funzionale per virtù
genetica o per esercizio e cambiamento epigenetico, risulti complessivamente
più efficiente.
I ricercatori nel campo dell’intelligenza naturale e
artificiale, molto più che in altri settori di ricerca, si sono interrogati
sulla concezione culturale, ideologica e personale del loro oggetto di studio e,
sebbene raramente siano giunti a conclusioni condivise, hanno contribuito a
tenere viva l’attenzione critica su ciò che correntemente si intende quando si
tratta questa facoltà del cervello umano. Questa non è la sede per affrontare
una disamina sull’argomento, che ho tirato in ballo solo per discutere delle
possibili radici psico-antropologiche della relazione tra luce e intelletto che
si rintraccia nelle antiche culture generatrici di matrici simboliche, ma solo
per notare che, allo stato attuale degli studi, un’esperienza del secolo scorso
può ancora esserci utile.
In una rassegna meta-interpretativa ci si rese conto
che tutte le teorie dell’intelligenza – oltre un centinaio – potevano essere
raggruppate in due classi, ossia quelle che postulavano l’esistenza di un
fattore generale (G) da cui facevano dipendere tutte le prestazioni nei compiti
sperimentali, e quelle che invece ritenevano che le sintesi prestazionali dipendessero
dall’efficienza di singoli e specifici processi cognitivi (s). Al di là del
giudizio su quale delle due concezioni fosse più vicina alla realtà funzionale
del nostro cervello, la convinzione diffusa dell’esistenza di un fattore G è testimonianza
di un modo di concepire la dimensione psichica: un’unica sostanza, un’anima,
che esprime come qualità l’intelletto, gli affetti e le virtù morali.
Non è azzardato, nel tentativo di riconoscere la
genesi delle idee umane, riportare l’idea dell’intelletto, quale qualità dell’animo,
ossia di un’entità psichica coesa e unitaria, alla primordiale percezione che l’uomo
ha avuto di sé stesso quale soggetto che risponde con la veglia alla luce del
giorno e con il sonno al buio della notte, e riportare invece l’idea dell’intelletto,
quale sintesi virtuale e convenzionale di differenti abilità, a una concezione culturalmente
appresa e consolidata nei millenni attraverso l’esperienza della scuola, dei
compiti dei diversi mestieri e delle attività manuali e pratiche richieste
dalla vita quotidiana.
Mi sono chiesto spesso che idea avessero i primitivi
dell’intelletto, in quel periodo di millenni che ha preceduto l’epoca in cui la
scrittura e la notazione matematica si sono affermate diventando forma mentale collettiva.
Senza dubbio, l’idea dell’intelligenza quale abilità in compiti astratti
formalizzati nasce in epoca storica, con la scolarizzazione precoce. Nella
preistoria vi deve essere stato il riconoscimento di un’abilità mentale della
persona[34],
distinta dalle doti fisiche di forza, velocità nella corsa, agilità, destrezza
in compiti psicomotori quali arrampicarsi sugli alberi e catturare una preda;
ma è difficile immaginare come fosse concepita questa qualità della persona, e
non possiamo escludere che nella mente dei primitivi fosse equiparata alla
determinazione nell’agire e all’efficienza nell’attuazione di propositi e
progetti.
Infine, è ragionevole supporre che l’idea stessa di
un valore mentale, con ogni probabilità concepito quale parte di una dimensione
complessiva ultracorporea, fosse spesso soggettiva,
perché è solo con l’organizzazione sociale che porta dai chiefdom
alle civiltà, per effetto della potente azione omologatrice della condivisione
di un idioma, di leggi, credenze, costumi e tradizioni, che si è giunti all’uniformità
di fondo delle idee dell’uomo sull’uomo cui ci ha abituato la storia.
7. La luce come stato di coscienza e
intelligenza della realtà. Nella dimensione astratta dell’esistente, che accosti
l’individualità del soggetto all’oggettività dello spazio concepibile, la
coscienza trova riscontro nella luce: come quest’ultima è necessaria per la percezione
di ogni cosa, così la coscienza è necessaria per ogni processo psichico
intenzionale, volontario, deliberato, quale il pensare, nel suo soffermare la
mente su un fatto, su un evento, sul vissuto di una circostanza o nel suo
seguire un filo di idee e di concetti, nello sviluppare una riflessione, nel
fare piani per il futuro o nell’immaginare in azione le persone protagoniste di
una circostanza che potrà o dovrà verificarsi. È un accostamento di senso figurato
più vicino all’analogia che alla metafora, e in ogni caso così profondamente
radicato in tutte le maggiori culture da potersi considerare alla stregua di
uno strumento di comprensione, se non di conoscenza, di valore antropologico.
La luce come consapevolezza attiva della mente
presente a sé stessa e capace di comprendere il mondo è sicuramente la figura,
intesa come formulazione mentale a metà tra immagine e concetto, più diffusa e
facile da reperire nella letteratura e nella saggistica di tutto il mondo e di
tutte le epoche, ma subito dopo, per frequenza, troviamo la luce nel linguaggio
figurato che allude a significati morali. Anche se la più completa
realizzazione di questo valore semantico e la sua massima diffusione si ha
attraverso la cultura cristiana che trae origine dalla citata identificazione
evangelica, sono innumerevoli gli esempi più antichi.
Quando Platone esorta ad essere indulgenti col
bambino che ha paura del buio, perché il vero problema è l’adulto che ha paura
della luce, gioca su un fondo di senso metaforico comune evidenziando per
contrasto dove è il male: non è certo nella debolezza di temere l’assenza di
vita, di bellezza e di energia, ossia la morte simboleggiata dal buio, ma nel
temere tutto ciò che, attraverso il nostro intelletto, dà luce alla coscienza e
porta noi stessi alla luce.
D’altra parte il senso del “lume di coscienza”
inteso come percezione di un’evidenza è profondamente radicato nella nostra
cultura ed efficacemente espresso in chiave fideistica in un adagio attribuito
a Blaise Pascal: “Dio ha messo nel mondo abbastanza luce per chi vuol credere,
ma ha anche lasciato abbastanza ombre per chi non vuol credere”. Questo
aforisma è interessante anche perché contiene la correzione in senso cristiano
di un antico motto pagano: “Zeus rende stolti coloro che vuol perdere”,
tradotto in latino ed erroneamente attribuito da cristiani inconsapevoli a Dio[35]; infatti,
il detto riportato dal matematico francese, nel rispetto della vera dottrina
del Dio cristiano, evidenzia al contrario le condizioni create per l’esercizio
del libero arbitrio.
La luce per metafora è spesso un’energia vitale di
bene e di intelletto, come quella intesa da Goethe, quando poeticamente nel
romanzo Le Affinità Elettive auspica: “Verrà forse un giorno in cui la
luce interiore uscirà da noi, in modo che non avremo più bisogno di altra luce”.
Il senso psicologico reso da quello figurato della parola è lo stesso implicitamente
inteso nell’esortazione del Budda, celebre presso i popoli orientali: “Siate
luce per voi stessi!”
L’identificazione tra luce e coscienza, considerata
la sua ubiqua presenza transculturale, è appartenuta con ogni probabilità alle
idee matrici originate dall’esperienza primordiale.
Se usciamo dalle suggestioni del pensiero analogico,
metaforico e immaginifico che ha costituito la radice più profonda della nostra
cultura ma si è rivelato privo di potere conoscitivo, e per concepire la luce torniamo
all’impiego dell’intelletto nella sua forma più efficace, ossia quella scientifica
già adottata all’inizio di questa riflessione per introdurre la visione
corrente, possiamo notare quanto oggi ci stiamo allontanando dal semplice
approccio attraverso quella branca della fisica classica denominata
elettromagnetismo, che ci ha permesso di spiegare fenomeni naturali, quali appunto
la luce, l’elettricità e il magnetismo.
Oggi conosciamo le quattro interazioni fondamentali
della natura: l’elettromagnetismo, l’interazione debole, l’interazione forte e
la gravità, e sappiamo che sono tutte mediate da bosoni detti bosoni
di gauge o bosoni elementari[36]. La
fisica delle particelle e la dimensione conoscitiva cui si accede attraverso questa
scienza possono consentirci un’intelligenza profonda della realtà di tutti i
fenomeni fisici cui appartiene la luce, ma non aggiunge molto alla comprensione
dei multiformi aspetti della nostra esperienza della radiazione solare.
Più vicino alle esigenze conoscitive della
dimensione empirica è il sapere neuroscientifico che ha spiegato i ritmi
circadiani, circamensili e circannuali
nei termini della genetica, della biologia molecolare e della fisiologia dell’orologio
biologico cerebrale sito nel nucleo soprachiasmatico dell’ipotalamo: un
meraviglioso dispositivo che sincronizza sulla luce naturale i ritmi di tutto l’organismo
a partire da antiche memorie incise all’alba della filogenesi dalla luce nel
DNA degli organismi terrestri. Un sapere che ci ha aiutato a comprendere le
basi della depressione ricorrente nel disturbo affettivo stagionale, ossia
una patologia che ci ricorda il nostro bisogno di luce per l’equilibrio
psichico: quella stessa radiazione solare che converte nella pelle i precursori
della vitamina D in molecole attive per il trofismo delle ossa, si è rivelata
indispensabile per innescare sequenze di eventi biologici che si traducono in
modificazioni neuroendocrine e di regolazione genica necessari all’equilibrio
psichico.
L’associazione della luce a vissuti positivi non ha
quindi solo la base psicologica della memoria del piacere percettivo, ma anche una
profonda origine biologica negli effetti prodotti sull’organismo e rilevati dal
sistema nervoso centrale. Il valore biologico della luce è una nozione classica
consolidata da decenni nel campo degli studi evoluzionistici, e Gerald Edelman,
nel progettare i suoi automi “Darwin” (I-IV) e “Nomad”,
dotati di reti neurali artificiali non esplicitamente programmate ma in grado
di differenziarsi per autoselezione operata grazie a un sistema di valori
biologici, impostò la luce come valore apicale, in particolare l’incidenza dei
raggi luminosi al centro della retina artificiale dell’automa.
La lunga storia evolutiva degli organismi alla
presenza della luce si può riconoscere in innumerevoli tracce, ma a me piace menzionare
un aspetto funzionale di una realtà umana della nostra esperienza comune. Quante
volte vediamo che a una persona, per effetto di gioia, entusiasmo o lieta
sorpresa le si illumina il volto? Chi ha una ricca vita sociale lo vede spesso.
Si “illumina il volto” è un’espressione metaforica adoperata da secoli dagli
scrittori e dai noi stessi nel linguaggio quotidiano, e scientificamente
sappiamo che ciò che accade, anche per il rilascio di endorfine, si sostanzia principalmente
nel contemporaneo distendersi dei muscoli del viso nelle loro inserzioni
sottocutanee con l’effetto di creare una superficie più liscia e continua, così
come appare nell’immersione in una luce naturale diffusa. Ma non è solo un’analogia
descrittiva: quando il cervello illumina il volto per uno stato affettivo, le
pupille vanno in miosi, cioè rispondono con un riflesso di riduzione del
diametro del foro pupillare come accade quando ci esponiamo realmente alla
luce: lo stato psicofisico generato dall’interno ha attinto ad un antico
paradigma biologico di reazione positiva alla luce.
8. Conclusioni. Concludendo
queste riflessioni, riconosco all’impronta lasciata dalla luce nella realtà
biologica un ruolo di fondamentale importanza nella genesi delle radici di
senso collegate al divino e rintracciabili nella storia etimologica delle
parole. Lo studio biologico, così come l’intelligenza impiegata per conoscere
la fisica della luce, ci hanno consentito di compiere enormi passi in avanti rispetto
al passato, ma se sul valore della luce siamo tutti d’accordo, al punto di
condividere metafore ormai considerate universali, sul rapporto col divino
siamo ancora divisi come nelle epoche passate. Quando Leone X fece coincidere il
giorno della celebrazione del Natale con la festa del sole dei Romani antichi,
intendeva sostituire l’astro materiale con quello simbolico trascendente,
immaginando un passaggio di consegne dal materialismo del mondo pagano alla
spiritualità di quello cristiano. Ma il cambiamento non fu totale, né è poi
diventato globale, così che ancora oggi, in materia di luce, abbiamo coloro che
si fermano al sole e coloro che credono nella luce divina. Tuttavia, almeno per
ciò che concerne l’associazione alla gioia, i versi che seguono del profeta
Isaia conservano un’approvazione universale, e allora mi congedo con queste
parole evocatrici di speranza:
Luce e gioia.
Il popolo che camminava nelle tenebre vide una
grande luce;
su coloro che abitavano in terra tenebrosa una grande
luce rifulse.
Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia[37].
L’autore della nota invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE”
del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giuseppe
Perrella
BM&L-18 giugno 2022
________________________________________________________________________________
La Società Nazionale
di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience,
è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data
16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica
e culturale non-profit.
[1]
J. Clerk Maxwell, A Dynamical Theory of Electromagnetic Field. Philosophical Transaction
of the Royal Society of London
155, 459-512, 1865.
[2] Le onde elettromagnetiche
(OE) sono emesse da particelle cariche accelerate e possono per questo interagire
con altre particelle cariche; tutti i corpi contengono particelle cariche in
movimento ed emettono spontaneamente OE che possono realizzare scambi di
energia tra corpi per irraggiamento. In meccanica quantistica si considera
la radiazione elettromagnetica costituita da fotoni, particelle elementari
con massa nulla a riposo, che rappresentano i quanti del campo elettromagnetico
responsabili delle interazioni. [V. nobelprize.org per un saggio sulla
duplice natura della luce].
[3] Genesi 1, 4-5.
[4] Il professore Aniello Gentile,
che ho avuto il privilegio di conoscere e dal quale ho ricevuto preziosi insegnamenti,
ereditò l’ultima cattedra di sanscrito d’Europa presso l’Università Federico II,
e rimase, dopo la soppressione della cattedra, tra i massimi esperti della lingua
indo-europea, matrice degli idiomi classici e considerata la più antica parlata
continentale fino alla scoperta delle origini dell’antico Vascone.
[5] Giorgio Raimondo Cardona, Storia
Universale della Scrittura, p. 63, Edizione CDE su licenza Mondadori,
Milano 1986.
[6] Cfr. S. Natoli, Parole della Filosofia o dell’arte di meditare, p. 142,
Feltrinelli, Milano 2004.
[7]
Per riflettere sul peso di questa differenza sono utili i contenuti del saggio Essere
e Senso di Monica Lanfredini.
[8] Giovanni 1, 9.
[9] Giovanni 8, 12.
[10] Yehuda era il nome del padre,
originario di Cordova, la città di Seneca.
[11] Shelomoh
Ibn Gabirol, Fons
Vitae, p. 312, Il Melangolo, Genova 2001.
[12] Shelomoh Ibn Gabirol, op. cit., idem.
[13] Shelomoh Ibn Gabirol, op. cit., idem. Il legame tra luce e parola della
cultura ebraico-cristiana lascia una profonda traccia nella nostra cultura,
tanto che anche un campione dell’anticlericalismo ottocentesco, come Giovanni
Battista Niccolini, scriveva: “La parola è luce dell’umanità, e la luce è la
parola della natura”.
[14] Hans von Arnim
(a cura di) Stoicorum Veterum
Fragmenta, IV voll., II, Fr. (B) 54, 1903-1924,
ripreso nella nuova edizione riveduta (la precedente era di Rusconi, Milano
1998) di Roberto Radice, Stoici antichi. Tutti i frammenti secondo la raccolta
di Hans von Armin (presentazione di Giovanni Reale), Bompiani, Milano 2014.
[15] Cfr. S. Natoli, op. cit., p. 144.
[16] È interessante notare che rarissimamente
usufruivano di quei testi gli Arabi di madre lingua. Un saggio storico di
spessore fornisce una dettagliata documentazione biografica degli eccellenti
medici ebrei d’Europa, eredi di quelli del Medioevo e del Rinascimento, e che
dal Settecento al Novecento hanno dato un contributo straordinario alla storia della
medicina: Samuel Kottek & Donata Vercelli, I
primi dei giusti. KOS II, 14, 65-94, maggio 1985.
[17] Si trova nei registri parrochiali di Stradbroke il suo
atto battesimale col nome di Robert Grosseteste, ma non
figurano i genitori in alcun registro parrocchiale inglese, dal che si deduce
la loro provenienza dall’Italia Centro-Settentrionale, dove il cognome Grossatesta
era molto diffuso. Ho riportato questa ipotesi, desunta da documenti consultati
da Carl Zimmer, nella raccolta di saggi dal titolo “Specchio della psiche e
della civiltà”.
[18] Cfr. Alistair Cameron
Crombie, Grosseteste’s Position in the History of Science, in Robert
Grosseteste, Scholar and Bishop, Claredon Press,
Oxford 1955.
[19] La definizione “metafisica della
luce” fu coniata nel 1916 da Clemens Baeumker per
indicare un contesto speculativo filosofico-teologico medievale con influssi
neoplatonici (Plotino, Proclo), teologici (Agostino),
arabi (Avicenna) ed ebraici (Avicebron, ossia Ibn Gabirol) di cui Roberto Grossatesta è considerato il maggior
esponente.
[20] Nell’interpretazione del De
Luce come opera filosofica, alcuni hanno visto il tentativo di integrare
elementi della filosofia di Aristotele in un pensiero cristiano di impronta
neoplatonica e caratterizzato dal seguire il ragionamento matematico come
Platone.
[21] Genesi 1, 1-3. Grossatesta
inaugura una tradizione cristiana inglese della luce che ritroviamo quattro
secoli dopo in Francesco Bacone che, nelle formule del suo empirismo
scientifico, ricorda: “La prima creatura di Dio fu la luce”.
[22] Roberto Grossatesta, Metafisica
della luce, p. 113, Rusconi, Milano 1986.
[23] Le linee, gli angoli e le
figure in Roberto Grossatesta, Metafisica della luce, op. cit., p. 137.
[24] Le linee, gli angoli e le figure
in Roberto Grossatesta, Metafisica della luce, op. cit., p. 129.
[25] Cfr. Giuseppe Perrella, Specchio
della psiche e della civiltà. (Quindicesima parte) § 31. Galileo Galilei cerca i codici della
realtà non l’essenza della verità e trova il bello nella ragione che spiega il
mistero e dona potere. (Si accede dalla copertina del sito con un click
sulla scritta Specchio della psiche e della civiltà e, all’apparire
dell’intestazione, scorrendo in basso fino a “Quindicesima parte § 31”). Il saggio è anche pubblicato in “NOTE E
NOTIZIE”: Note e Notizie 25-09-21
Specchio della psiche e della civiltà – quindicesima parte.
[26] Reso celebre come Alano delle
Isole da Umberto Eco per una citazione ne Il nome della rosa: “Alano
delle Isole diceva che omnis mundi creatura quasi liber
et pictura nobis est in
speculum e pensava alla inesausta riserva di simboli con cui Dio,
attraverso le sue creature, ci parla della vita eterna”. Tratto dall’edizione
digitale Giunti (sull’originale Bompiani) del 2018.
[27] Cit. in S. Natoli, op. cit., p. 144.
[28] Gli stessi che troviamo incisi
sulla porta dell’Inferno (Inf., III: 5-6) ad indicare la presenza di Dio
anche nel luogo più basso dell’universo.
[29] Dante Alighieri, Commedia,
vol. III, Paradiso, p. 11, cfr. note con commento di Anna Maria Chiavacci
Leonardi, I Meridiani Collezione, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2006.
[30] Anna Maria Chiavacci Leonardi in
Dante Alighieri, Commedia, vol. III, Paradiso, op. cit. p. 833.
[31] Proverbi 8, 22-31.
[32] S. Natoli, op. cit., p. 149.
[33] Si veda Note e Notizie 17-10-20
Metis alle origini del concetto di intelligenza.
[34] La maggior parte degli
antropologi impegnata nello studio di popolazioni che vivono allo stato
primitivo, suppone che, come costoro, i nostri progenitori ancestrali
immaginavano nelle persone la presenza o l’assenza di spiriti particolari
responsabili delle singole abilità.
[35] In latino era così: quos vult Iupiter perdere, dementat prius; ma ne fu creata una versione cristiana, di fatto
eretica: quos Deus perdere vult, dementat prius. L’errore di crederla una formula cristiana è di
Lev Tolstoj, che la usa in Guerra e Pace per riferirsi a Napoleone
Bonaparte quando intraprende la campagna di Russia. Questo antecedente crea un
uso diffuso, seguito anche dagli sceneggiatori del film di Dino Risi Pane, amore
e…, che fanno rivolgere la frase dal parroco don Matteo (Mario Carotenuto)
all’attempato fratello (Vittorio De Sica) che vuole sposare una giovane pescivendola
(Sophia Loren).
[36] Il nome viene da quello del
fisico indiano Satyendranath Bose, come quello dei
fermioni viene da Enrico Fermi. Bosoni e fermioni costituiscono le due famiglie
fondamentali in cui si dividono le particelle subatomiche. Il bosone è una
particella che obbedisce alla statistica di Bose-Einstein e ha spin intero,
secondo il teorema spin-statistica, e, a differenza del fermione, non obbedisce
al principio di esclusione di Pauli, secondo cui uno stato quantico può essere
occupato da non più di una particella, e quindi molti bosoni possono occupare
uno stesso stato quantico, come accade nella luce laser per i fotoni, che sono
un tipo di bosoni di gauge.
[37] Isaia 9, 1-2.