Luce e Intelletto

 

 

GIUSEPPE PERRELLA

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIX – 18 giugno 2022.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]

 

Il presente scritto può considerarsi un rapporto sintetico di una riflessione sviluppata in seno al Seminario sull’Arte del Vivere della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life Italia”. Dopo “Essere e Senso” di Monica Lanfredini pubblicato tra le “Note e Notizie” del 4 giugno, e in ideale prosecuzione di quel saggio, si propone un breve studio sui valori di senso evocati dall’esperienza della luce e custoditi dalla parola, particolarmente in quello spettro di significati che si ricollegano per un estremo all’essere e per l’altro all’intelletto.

 

1. La luce nella realtà presente è compresa grazie alla scienza ma rimanda al fascino della storia antropologica del suo concetto. La luce, consentendoci di vedere, costituisce condizione prima e necessaria dell’esperienza umana, tanto del singolo nell’istante presente quanto dei popoli nella diacronia della storia. Ogni ethos, ogni abitare umano in una dimensione mentale, ha un suo antecedente materiale nell’essere in un luogo fisico che conosciamo nelle sue forme, nei suoi colori, nei suoi toni grazie alla visione consentita dall’illuminazione: indissolubilmente legata al ruolo e al senso della percezione visiva, la luce è tra i presupposti principali della vita.

Oggi siamo abituati a pensare alla luce, in qualità di ente fisico, come a un fenomeno elettromagnetico di natura corpuscolare e vibratoria in grado di attivare le due classi di recettori retinici ed essere così percepita dall’occhio, dal quale si dipartono le fibre delle vie ottiche che raggiungono il cervello, consentendo l’elaborazione di quell’informazione da parte di trentadue aree della corteccia cerebrale. La fisica della luce e la neuroscienza della percezione visiva sono intimamente connesse, perché sappiamo che l’oggettività del fenomeno luminoso sarebbe poca cosa senza un percipiente, senza l’occhio nostro o di un animale che ne legga la capacità di rivestire lo spazio e svelarne i contenuti. Con l’istruzione scolastica oggi è conoscenza comune ciò che Maxwell aveva compreso già nel 1865[1], ossia che in termini fisici le onde elettromagnetiche si distinguono per frequenza e lunghezza d’onda in una gamma continua che non indica null’altro se non i caratteri che possiamo rappresentare in forma grafica e dati numerici, ma il fatto che una parte dello spettro di frequenza costituisca la luce è dovuto alla sua percettibilità[2]. Infatti, in ordine di frequenza crescente, attualmente riconosciamo le onde radio, le microonde, la radiazione infrarossa, la luce propriamente detta, la radiazione ultravioletta, i raggi X e i raggi gamma.

Per gli uccelli e per altri animali la radiazione ultravioletta è luce, perché hanno fotorecettori retinici in grado di percepirla, mentre per noi è solo una nozione scientifica; questo esempio è un argomento a sostegno del senso specificamente umano dell’esperienza della luce, che ha nella comune radice biologica di tutti i popoli la ragione della sua universalità.

L’efficacia da sempre suggestiva del concetto di luce è testimoniata dall’uso metaforico che si ritrova fin dai tempi più remoti negli scritti degli autori greci e lungo tutto il corso storico, fino al “secolo dei lumi” e agli innumerevoli episodi di enlightenment o “illuminazione” riferiti dai media internazionali dei nostri giorni, presso i quali si abbonda nell’uso del vocabolo in uno spettro che va dalla politica internazionale, per indicare la meritoria intelligenza di una questione, alla cronaca degli sport di squadra, per definire una soluzione di gioco insperata e vantaggiosa.

 

2. Le tracce antiche evocano la dimensione di pensiero in cui si forma il concetto di luce che poi diventerà matrice simbolica. Il metodo fra noi consueto di studiare l’etimo di una parola per risalire all’esperienza che l’ha generata, si rivela particolarmente utile quando si tratti di termini verbali riferiti a vissuti naturali fondamentali e universali che, in quanto tali, trovano diretta rispondenza in ciascuno di noi.

Il nostro termine luce corrisponde nella lingua greca a phaos/phōs, dalla radice pha- da cui deriva anche il verbo phainō, che si traduce “rendere manifesto, evidente” o “mostrare”.

Dunque, queste antiche forme verbali attengono al disvelamento della realtà operato dal suo illuminarsi: la luce muta la notte in giorno e fa apparire alla vista quanto è celato dalle tenebre, propriamente lo svela. Ritroviamo la stessa impronta anche in latino, in cui i termini lux/luceo originano dalla radice luc- che indica l’irradiarsi della luce, non solo intesa come il risplendere della fonte, ma soprattutto come il propagarsi che rende man mano evidente all’occhio quanto prima rimaneva indistinto. La radice designa proprio l’esperienza della sorgente solare che emana raggi e inonda il cielo e la terra, generando il giorno.

L’equivalenza presso gli antichi Romani di luce e giorno è impressa come un sigillo nelle espressioni in luci, per dire “di giorno”, ante lucem, ossia “prima che venga il giorno” e prima lux per indicare l’alba. Ma si tratta di un’identità che viene da lontano: nel libro della Genesi, la creazione della luce termina con queste parole: “Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno”[3].

Il testo della Bibbia ci istruisce ancora in modo esemplare sull’antica radice di senso già presente in epoca arcaica ma, allo stesso tempo, solleva nella nostra mente un interrogativo perfino inquietante per la coscienza di chi non si abbandoni a una serena ma passiva lettura anagogica, circa l’entità realmente significata dalla parola nell’espressione: “Sia la luce!”. Anche per i più primitivi tra i popoli arcaici la luce del mondo è quella del sole, qualunque fosse l’idea che avessero della stella attorno alla quale gira la Terra; ma il testo biblico è chiaro e specifica che questa luce è stata creata prima di ogni astro, e che ogni altra cosa viene dopo, quando è già attivo ed operante l’ente radioso. Cosa si intende allora per luce?

Accantonando per il momento il problema nei suoi termini di esegesi biblica dei credenti e rimandando a dopo per una risposta realmente “illuminante”, rimaniamo alla lettera del testo e al suo significato immediato: la luce non è Dio, ma è sua diretta manifestazione perché più vicina al Creatore che al creato. Lo studio delle radici etimologiche di Benveniste, secondo la profonda conoscenza storica e linguistica dell’idioma indo-europeo di Gentile[4], ci aiuta nell’identificare nel termine sanscrito adidet la radice *dei, che vuol dire risplendere, e costituisce sorprendentemente l’origine comune di parole che attengono alla divinità e al giorno: la sequenza semantica deus di-es, di-vus, lo Iovis latino e lo Zeus greco, il cui genitivo è Dios. Sì, Dio, il nome cristiano in italiano di JHWH o Javé degli Ebrei giunge, via latino, dal nome greco di Giove, signore della luce, del cielo, dello spazio aperto e dei fulmini, la cui radice denominativa sanscrita nasce per designare ciò che ai sensi o all’intelletto umano sembra risplendere.

Anche se il peso della cultura ebraica sulle civiltà mesopotamiche e gli scambi intercorsi nei tempi più remoti fra quei popoli non sono facili da studiare e definire, è suggestivo il caso del dio dei Babilonesi considerato “scrittore dell’universo”: Nabū, il cui nome deriva da Na-bi-um, che vuol dire “lo splendente”, ed è detto in ebraico Ne[5].

Una differenza significativa nella concettualizzazione della luce tra le due linee diacroniche culturali, greco-latina e giudaico-cristiana, peraltro notevolmente convergenti nell’ampio patrimonio di metafore condivise, si rintraccia proprio nella concezione originaria. Per i Greci la luce è principalmente quella del sole, che rivela agli uomini lo spazio con le sue forme e i suoi colori e dalla quale Euclide desume la sua teoria ottica e diffonde l’uso di espressioni quali riflessione, rifrazione e angolo di incidenza. La Bibbia invece definisce la luce come prima forma di essere[6] e, in un certo senso, definisce l’essere stesso del creato e principalmente dell’uomo come un’evocazione alla luce[7].

Proprio questo spunto ci rimette sulle tracce dell’esegesi cristiana del libro della Genesi, che più sopra avevo rinviato. Dunque, la luce della Sacra Scrittura non è quella di un astro, ma precede la creazione di ogni cosa e, conseguentemente, indica ciò che promana da Dio e inaugura la creazione: una forma di energia primigenia, all’origine di tutti i tipi di energia che si andranno costituendo e, soprattutto, l’elemento che transita dall’indefinibile della sostanza divina alla materialità delle creature. Se è questa la luce, deve avere in sé le qualità dell’intelletto d’amore che i credenti riconoscono in una dimensione sublime e assoluta nel Creatore e, se da lui promana, porta con sé il senso, l’autenticità e l’essere divino all’uomo. Se la luce è questa energia che è presso Dio fin da principio, allora ciò che porta nella dimensione umana è Via, Verità e Vita, si identifica con il Logos, il Verbo, la Parola e, quando si incarna, entra nella storia come Gesù di Nazareth detto il Cristo o Messia. E questo ci dice Giovanni nel suo Vangelo: “…veniva nel mondo la luce vera[8], e ci riporta quanto Gesù stesso afferma: “Io sono la luce del mondo”[9].

L’identificazione del Figlio dell’Uomo con la Sophia, la sapienza e la saggezza accostate alla phronesis greca, indica già una traccia per riconoscere un collegamento tra luce e intelletto nella cultura occidentale.

Ritornando a una più ordinaria dimensione di significazione, l’espressione che accomuna cultura classica e cristiana “venire alla luce”, per riferirsi alla nascita, in origine non indicava il semplice emergere dal buio uterino all’esterno illuminato, ma proprio l’entrata nella scena del mondo, la comparsa nel giorno della vita comune, nello spazio di conoscenza prima familiare e poi sociale che, nel riconoscimento reciproco, costituisce l’identità e crea il presupposto perché ciascuno possa eseguire o esibire la propria performance esistenziale, sia che rimanga nel teatrino domestico sia che acceda a una rappresentazione sul palcoscenico della storia.

 

3. La Luce è la Parola da cui emana la forma, secondo il Fons Vitae di Gabirol. Siamo abituati a pensare al Medioevo come a un’epoca di esclusiva cultura cristiana, ma il pensiero del popolo che non aveva riconosciuto in Gesù Cristo il Messia annunciato da Isaia e la vera luce del mondo, continuava in quei secoli a produrre opere speculative non trascurabili. Un poeta ebreo andaluso impegnato in studi di filosofia e teologia di nome Shelomoh ben Yehuda[10] Ibn Gebirol o Gabirol (1021-1058), conosciuto anche come Avicebron secondo la versione romanza del suo nome, scrive un testo fondamentale per la filosofia ebraica, un saggio nel quale si legge una concezione della luce che ha influenzato tante generazioni nel corso dei secoli: il Fons Vitae.

Fedele alla sua prima identità di poeta, Gabirol non procede seguendo un ragionamento che prenda le mosse da dati di certezza e si sviluppi attraverso una logica deduttiva intrinsecamente coerente, come nella tradizione cristiana, ma si basa sull’intuizione per conferire plausibilità alle sue interpretazioni creative. Ciò che emana dal Creatore deve essere una sorta di sostanza unica, qualcosa che si potrebbe definire “intelletto divino”: se le cose stanno così, allora si giustifica che i grandi concetti simbolici dei fenomeni, che secondo gli uomini procedono da Dio, si identifichino tra loro, in una soluzione razionalmente strana in quanto indimostrata, ma letterariamente efficace perché di forte impatto suggestivo: “La Luce è la Parola da cui emana la forma”[11]. Invece di spiegare, Gabirol tende a impressionare.

La parola prima, quella della creazione, si identifica con la luce che genera da sé la forma, in una sorta di catena di identità. Ma l’identificazione tra luce e forma induce Gabirol a immaginare che la forma si comporti come luce e, in quanto tale, agisca sul fondamento: “…la forma risplende su di esso (il fondamento) e vi si immerge, come la luce del sole fa risplendere l’aria e la terra e vi si immerge”[12].

Il poeta-filosofo andaluso, proseguendo nella sua articolazione creativa, sviluppa il suo pensiero attraverso suggestioni convolute che provo qui a dipanare e rendere in sintesi: la Parola-Forma è Luce di intelletto che, a sua volta, emana una luce percepita dai sensi, la quale dà origine nuovamente a forme intese quali figure di luce: appartiene infatti alla luce “di svelare la forma dell’ente e di farla vedere, dopo che essa è rimasta nascosta”[13].

Lungi dal contenere intuizioni sul rapporto tra energia e materia, la dissertazione di Gabirol è un gioco di immaginazione quasi onirica, che ci ricorda l’accostamento tra luce e fantasia degli Stoici, i quali sostenevano la derivazione etimologica di phantasia da phōs, la luce[14].

Le tematiche affrontate da Gabirol sono ritenute tipiche del neoplatonismo arabo-ebraico, come indica anche Salvatore Natoli[15], ma l’epoca e tutti i riferimenti diretti e indiretti alla Torah ci consentono di inquadrare il Fons Vitae come un testo di autentica tradizione giudaica.

Non posso tacere in proposito il dubbio che sia mai esistito un neoplatonismo arabo-ebraico e non si sia trattato semplicemente di filosofi di lingua araba che abbiano abbandonato l’integralismo islamico e si siano aperti alla cultura prevalente nel mondo a loro circostante; d’altra parte, è noto che l’arabo era stato lingua veicolare anche per gli Ebrei e che testi di anatomia greca, come l’intera opera di filosofi greci, siano stati tradotti in arabo fin dalle epoche più remote. Si ricorda, per inciso, che la presenza di valenti medici ebrei presso le corti europee dal Medioevo all’epoca contemporanea aveva avuto questa origine: i medici ebrei erano più bravi perché avevano studiato la medicina greca – bandita nell’Europa cristiana – grazie alla traduzione in arabo dei trattati di dissezione di Erofilo ed Erasistrato della scuola greca di Alessandria d’Egitto, e dei principali libri di medicina ippocratica[16].

Il modo di Gabirol di concepire la luce, nel suo rapporto reale e metaforico con la divinità e col suo intelletto, influenzerà una parte considerevole del pensiero cristiano fino a Dante che, nella cantica del Paradiso della Divina Commedia, fonda sulla luce le sue principali costruzioni di immagini.

 

4. La “Metafisica della Luce” di Roberto Grossatesta è un esercizio di intelletto che precorre i tempi. Roberto Grossatesta nacque nel 1175 a Stradbroke da genitori verosimilmente giunti dall’Italia[17], divenuto presto professore e priore francescano di Oxford, dove aveva studiato medicina, scienze naturali e legge, contribuì alla fondazione della scuola universitaria francescana di Oxford nel 1224 e assunse l’incarico di rettore. In seguito divenne Vescovo di Lincoln. Alistair Cameron Crombie, zoologo e storico della scienza, considerò Grossatesta il vero fondatore della tradizione del pensiero scientifico nella Oxford medievale[18].

La Metafisica della Luce[19] è in realtà una raccolta di saggi dai testi non semplici e di scorrevole lettura in tutte le loro parti, e la loro esegesi classica si è basata sul rintracciare nella letteratura medievale precedente le fonti di metafore, concetti e locuzioni. In altre parole, questi saggi sono stati considerati alla stregua di componimenti letterari di impronta teologica, assemblati a partire da spunti e suggestioni di efficacia evocativa sulla mente del lettore, e tali da intrattenerlo con la piacevole esperienza di un testo gradevole ispirato a verità di fede[20]. Credo, invece, che i contenuti giustifichino l’assunzione di un’angolazione visuale decisamente diversa.

A me sembra, innanzitutto, che Grossatesta abbia in mente una chiara distinzione paradigmatica tra il creato soggetto alle leggi di natura e il Creatore costituito da una speciale energia, una parte della quale può identificarsi con la luce. Poi, mi sembra evidente che il fondatore del pensiero scientifico dell’Università di Oxford abbia una fiducia incondizionata nello strumento della ragione applicato alla comprensione di linee, angoli e figure creati dai raggi luminosi, dunque nella possibilità di concepire una “geometria della luce”, ovvero una fisica ottica, da considerare ante litteram se pensiamo a quelle galileiana e newtoniana, ma forse da accostare a quella classica euclidea.

Mi sono chiesto, allora: perché non considerare la Metafisica della Luce un testo scientifico?

Prima di provare a dimostrare la fondatezza di questa possibilità, mi piace ricordare che Grossatesta era stato fra coloro che organizzarono l’Università di Oxford sul modello fiorentino delle arti del Trivio e del Quadrivio, ossia contemplando sia le materie umanistiche che quelle scientifiche in un curriculum di formazione ideale e universale.

L’influenza del Fons Vitae di Gabirol è evidente, sia dalla tesi che la materia derivi dalla luce sia dall’identificazione di luce e forma, senza contare l’identità di vedute teologiche; ma i saggi del Vescovo di Lincoln, a partire dal De Luce, sono prevalentemente centrati su argomentazioni dimostrative, sviluppate sul filo di ragionamenti logici, pur se prendono le mosse dagli assunti indimostrati di Shelomoh ben Yehuda.

È interessante seguire il modo di precedere di Grossatesta, che prende alla lettera il testo biblico del libro della Genesi, considerandolo alla stregua di un rapporto oggettivo degli eventi fenomenici accaduti: “In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu”[21]. Il francescano inglese sofferma l’attenzione sul fatto che prima della luce la terra era “informe e deserta”, in latino lui legge inanis et vacua, ma dopo l’apparizione della luce cominciano a formarsi i corpi; dunque, ne desume che è la luce a conferire la prima forma corporeitatis. Il sottotitolo del saggio De Luce è proprio inchoatione formarum, ossia l’inizio delle forme, e l’esordio dello scritto entra subito in argomento: “Ritengo che la forma prima corporea, che alcuni chiamano corporeità, sia la luce”. E poi, dopo una lunga e articolata argomentazione deduttiva, conclude: “Quindi o la corporeità è la luce stessa oppure essa agisce in quel modo e conferisce le dimensioni alla materia in quanto partecipa della natura della luce e agisce in virtù di essa”[22].

La formazione del cosmo si può presumere che derivi dalla propagazione all’infinito della luce. Ma, soprattutto, Grossatesta deduce che, se la corporeità originaria si identifica col fenomeno luminoso, tutti i fenomeni naturali possono esse ricondotti alle leggi che governano la luce. In un linguaggio attuale diremmo che confidava di spiegare con la fisica ottica tutta la fenomenica naturale. Per questo non meraviglia che, nel saggio su linee, angoli e figure, afferma con certezza: “L’utilità di considerare le linee, gli angoli e le figure è grandissima, perché senza di essi non si può conoscere la filosofia naturale”[23].

Ma, a mio parere, l’argomento decisivo a sostegno della tesi che l’opera sulla metafisica della luce di Grossatesta possa considerarsi a buon diritto di carattere scientifico è sinteticamente espresso in questa dichiarazione: “[linee, angoli e figure] sono validi in tutto l’universo e nelle sue singole parti. Hanno validità anche nelle proprietà delle relazioni, come nel moto retto e circolare…”[24]. Ed è rafforzato dal dichiarato intento di determinare, attraverso la fisica della luce, la matematizzazione conoscitiva dell’universo, anticipando di quasi cinque secoli la celebre formula del Saggiatore di Galileo Galilei: l’universo è scritto in lingua matematica[25].

L’errore originario, fatale nel determinare la condanna dei saggi sulla luce dell’Oxoniano all’oblio dei moderni, è consistito nell’accettare la visione intuitivo-creativa del poeta-filosofo ebraico.

Tra gli interpreti medievali del sapere sulla luce, dopo Gabirol e Grossatesta, spicca una figura davvero singolare di teologo francese, Alano di Lilla o delle Isole (1125-1202)[26], che crede nella teologia come scienza matematica e sostiene che l’universo, in quanto infinito non abbia un centro reale, ma solo apparente e coincidente con la posizione dell’osservatore, secondo un ragionamento ripreso da Niccolò Cusano e, in epoca contemporanea, da Albert Einstein. Alano, oggi venerato come beato dalla Chiesa Cattolica, convinto che il concetto di Trinità non possa essere oggetto di dimostrazione, sostiene debba essere immaginato e figurato, e pertanto descrive il mistero trinitario come un fiume di luce, e scrive: “Fonte, ruscello e fiume, sebbene siano distinti, convergono in un sol punto … e sono un sole unico, che, simile a una fonte, supera in luminosità il sole stesso”[27]. Anche se questa figura, a mio avviso, non è particolarmente felice, perché non rende il concetto delle tre Persone uguali e distinte, né per analogia né per metafora, ebbe particolare fortuna per il suggestivo accostamento al sole e alla sua luce.

Matilde di Magdeburgo (1212-1283), una mistica tedesca, raccoglie tutte le sue esperienze nell’unica opera alla quale si dedica per tutta la vita e che intitola: La luce fluente della divinità.

Quindi, dalla radice sanscrita *dei, formatasi quasi in epoca protostorica, al racconto delle esperienze mistiche nel XIII secolo, l’associazione tra il divino e il risplendente è ormai una consolidata realtà culturale, ma, per quanto riguarda la rappresentazione del divino mediante la luce, nella nostra storia letteraria non vi è stato nulla di paragonabile al Paradiso dantesco. Anche perché quel testo ha goduto di una diffusione capillare, che ha determinato l’entrata delle sue figure poetiche nella coscienza comune e nell’immaginario collettivo del tempo e dei secoli a venire.

Per renderci conto dell’intensità di questo messaggio dall’inizio alla fine della cantica, dove i beati sono corpi di luce, leggiamo insieme le prime due terzine, avvalendoci per l’interpretazione del primo sostantivo del primo verso di un commentatore d’eccezione, ossia Dante stesso, che nell’Epistola a Cangrande (Ep. XIII) illustra il significato che intendeva dare alla parola gloria:

 

La gloria di colui che tutto move

per l’universo penetra, e risplende

in una parte più e meno altrove.

Nel ciel che più della sua luce prende

fu’ io, e vidi cose che ridire

né sa né può chi di là su discende;

 

Dante spiega nella lettera che la gloria esprime non la potenza o la magnificenza ma la realtà divina nell’atto di rendersi presente nel creato e, in particolare, scrive in latino che la gloria è il raggio divino e che la ragione ci manifesta che la divina luce, cioè la divina bontà, sapienza e potenza, risplende dovunque. Bontà, sapienza e potenza sono i tre attributi della Trinità[28]. Nell’Epistola XIII, Dante precisa poi ulteriormente il senso che intende conferire alla parola gloria, identificandola con lo Spirito Santo, lo Spirito di Dio che riempie il mondo[29].

Tutte le cose in Paradiso sono creature di luce, che attraversano tutta la cantica, fino al XXX canto (61-66) dove Dante vede la riviera, ossia la sponda che costeggia il fiume di luce: e vidi lume in forma di rivera / fulvido di fulgore, intra due rive / dipinte di mirabil primavera. Anna Maria Chiavacci Leonardi, sostenuta da spunti della Vita Nuova, riconosce la massima importanza a questi versi: “Comincia qui la visione vera e propria, la vera e sola visione a cui tutte le altre sono ordinate, a cui ci si prepara fin dall’inizio del poema, e forse anche da prima (cfr. Vita Nuova XLI e XLII). Finora si è precisata la qualità dello strumento che vede (la novella vista). Ora si affronta l’oggetto del vedere… Non vediamo ancora Dio o i santi, ma un fiume di luce, anzi una luce in forma di fiume”[30].

L’appartenenza della luce a Dio è legata alla creazione, dunque il senso della luce attiene alla genealogia dell’essere. Ma in questa materia, già nel X secolo a.C., gli Ebrei avevano una chiara idea di quale fosse la forza creatrice e a quale virtù umana sublimata e assolutizzata potesse essere accostata. Mi si perdoni per la citazione un po’ lunga dal libro dei Proverbi, ma credo che possa rendere in modo efficace un pensiero che la tradizione attribuisce a Salomone, ma riflette una concezione ebraica diffusa e tramandata per qualche millennio:

 

La Sapienza creatrice dell’universo.

Il Signore mi ha creato all’inizio della sua attività; prima di ogni sua opera, fin d’allora.

Dall’eternità sono stata costituita, fin dal principio, dagli inizi della terra.

Quando non esistevano gli abissi, io fui generata;

quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua;

prima che fossero state fissate le basi dei monti, prima delle colline, io sono stata generata.

Quando ancora non aveva fatto la terra e i campi, né le prime zolle del mondo;

quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso;

quando stabiliva al mare i suoi limiti, sicché le acque non ne oltrepassassero la spiaggia;

quando disponeva le fondamenta della terra,

allora io ero con lui come architetto ed ero la sua letizia ogni giorno,

mi rallegravo davanti a lui in ogni istante; mi ricreavo sul globo terrestre,

ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo[31].

 

La Sapienza è dunque per gli Ebrei il principio creatore generato da Dio, dal quale origina la stessa luce e poi tutto il creato.

 

5. Il fuoco non è luce, è fiamma che brucia, distrugge o consuma qualcosa per quel poco che illumina. Conoscere i valori simbolici delle concezioni che hanno attraversato indenni una diacronia di millenni e comprendere i contenuti dei miti è affascinante, ma non sempre è facile. Tra le insidie spesso sottovalutate vi sono le bias psicologiche, ossia le tendenze inconsapevoli che possono indurre chi non ne conosca l’esistenza, e pertanto non sorvegli con vigile attenzione e imparziale autocritica il proprio operato, a seguirle, magari forzando il senso di trame o di fatti secondo i propri desideri.

Discutendo della luce, Salvatore Natoli parla del fuoco narrando il mito di Prometeo, nella versione di Esiodo, che vuole il fuoco celato dagli dei agli uomini, scoperto e trafugato dal figlio del titano Giapeto, e poi nella versione di Eschilo, secondo cui l’uomo creatore di uomini sottrae il fuoco agli dei per portarlo alle sue creature e renderle divine. Natoli scrive: “Il fuoco è certo luce: è luce donata e insieme catturata; nel fuoco l’uomo conserva la potenza della luce, ma anche ne dispone, la produce”[32].

È qui l’errore: il fuoco non è luce; il fuoco fa luce. Allo stesso modo in cui una grotta di giorno offre ombra e riparo dal sole, una fiamma rischiara la notte e può riscaldarla; ma la grotta non è il buio e la fiamma non è la luce.

Si tratta di un errore logico che consiste nel confondere l’identità dei predicati con l’identità dei soggetti. Due soggetti possono avere una proprietà comune, un attributo condiviso, o fare la stessa cosa, ma non per questo sono lo stesso soggetto. Una goccia di rugiada bagna come una goccia del mare, ma non per questo deduco che la rugiada è il mare, come non lo è la pioggia o lo zampillo di una sorgente. Questa differenza è di fondamentale importanza per comprendere i valori simbolici all’origine della nostra cultura, ben distinti nella mente di coloro che ne hanno tramandato il senso.

Nell’esperienza primordiale la luce è intesa come giorno: un fatto universale che investe il cielo e la terra, con un valore positivo per tutte le creature che vi abitano. Al contrario, il fuoco è esperito come il prodotto di un evento limitato o di un’azione umana: lo si accende per uno scopo di utilità mediante la combustione di ciò che lo genera, ossia consumando o distruggendo qualcosa; in altri termini, l’esperienza più frequente del fuoco è quella di un prodotto che ha un costo. Il connotato principale del fuoco rimane la sua azione distruttiva, e non è un caso che la luce del sole che viene dal cielo sia accostata alla grazia, mentre il fuoco venuto dall’alto, come nel raro caso dell’autocombustione o di incendi prodotti da fulmini, sia considerato una disgrazia.

Da molti contemporanei i miti che riguardano il fuoco sono assimilati a quelli della luce o confusi con quelli che attengono alla categoria della luminescenza divina, probabilmente influenzati dalla tendenza a voler eliminare – da non credenti – la distinzione tra il Dio giudaico-cristiano che genera la luce e le divinità pagane che, tutt’al più, posseggono il fuoco; ma si tratta di dimensioni differenti dell’esperienza umana, ben distinte anche in una visione antropologica laica che attribuisca tutto ciò che attiene alla sfera religiosa alla creatività umana e alla conservazione nell’atemporalità rituale trasmessa culturalmente.

La differenza tra un fuoco di legna, che per illuminare efficacemente uno spazio circoscritto ha bisogno del buio, della notte, delle tenebre e, in ogni caso, lascia il segno della cenere dove ha dato luce tagliente capace di rischiarare solo piccole parti di persone e cose vicine, e la luce del giorno, in cui si immerge tutta la realtà, suggerisce un’altra riflessione.

Nella pittura figurativa e paesistica, l’intonazione del dipinto è un compito di fondamentale importanza per il pittore: dipingere delle parti fuori tono compromette la resa e l’effetto di tutto il lavoro; tali parti creano disarmonia e appaiono sbagliate anche alla persona meno esperta d’arte e meno dotata di sensibilità estetica. Perché? Perché noi siamo abituati all’intonazione omogenea, armonica e coerente conferita dalla luce alla scena naturale e a ogni soggetto che vi appaia. In ore del giorno diverse si hanno differenti condizioni di illuminazione naturale: dal tenue e progressivo apparire delle tinte negli ombrosi chiaroscuri alle prime luci dell’alba, all’intensità netta e satura dei colori del giorno pieno, fino alla calda e dolce atmosfera cromatica del tramonto; ma, in ogni caso, tutto è immerso nella stessa luce.

Non molti sanno che il greco antico armos, ossia spalla, da cui il latino armus (e l’inglese arm per braccio) proveniva dalla radice ar-, che indicava la giuntura perfetta, ed era inizialmente del gergo anatomico, riferendosi alla diartrosi scapolo-omerale, in cui la testa dell’omero è perfettamente adattata alla cavità glenoidea della scapola, all’interno della quale ruota consentendo tutti i movimenti del braccio. L’adattamento preciso e funzionale dei due capi articolari dell’armos è chiamato armonia, e diventa ben presto prototipo e paradigma, dando luogo alla personificazione nella dea Armonia e alla designazione di una condizione di equilibrio tra forme naturali o artificiali, di bilanciamento gradevole o funzionale tra componenti astratte o concettuali, come in uno stato mentale o in un rapporto sociale.

Armonia, per i Greci che ebbero nella misura la loro cifra culturale, costituisce un tropo artistico e filosofico, oltre che un ideale politico. La luce, creando una condizione che accomuna le parti rendendole adatte a stare insieme per una coerenza tonale, può considerarsi un fattore armonizzante.

La luce, producendo forme, colori e toni chiaroscurali, genera armonie evidenti o nascoste, straordinarie o consuete e perfino banali, ma costitutivamente presenti in ogni scena naturale, in ogni realtà percepita del mondo diurno, e conferisce ai corpi di natura qualità percettiva con gli stessi modi, secondo gli stessi principi e destando la medesima meraviglia dell’inizio dei tempi.

 

6. Intelletto e intelligenza: poche parole funzionali alle riflessioni sulla luce. Comunemente si ritiene intelligente chi risolve un problema; in realtà, nella maggior parte dei casi, trovare la soluzione di un problema logico o matematico è prova di un’abilità applicativa circoscritta al tipo di quesito: il solutore sceglie quello giusto fra criteri, regole, procedure, meccanismi o teoremi che conosce. Se per intelligenza si intende un’abilità più generale di comprensione spontanea e di uso efficace delle multiformi risorse della cognizione, sicuramente la capacità di porsi un problema non ancora codificato come tale è di gran lunga più probante e significativa; ma tale abilità è più difficile da verificare e misurare.

In entrambi i casi, tuttavia, si rimane a un giudizio della facoltà concepito su un modello lineare dell’abilità di decodificare o codificare in termini logici, come quando, ad un livello più elementare, si stima la capacità di qualcuno di comprendere un nesso causale o un nesso condizionale tra proposizioni in un filo aristotelico. Ma esiste anche un altro modo di concepire il potere intellettivo umano: la capacità generale di una mente di cogliere il senso delle cose, riconoscere le priorità, trovare soluzioni a problemi che altri non si sono ancora posti, decifrare un contesto sociale complesso, inferire correttamente lo stato d’animo delle persone, le loro intenzioni inespresse, i sentimenti che provano, gli interessi che perseguono. In parte, questo modo di concepire l’intelligenza come facoltà generale coincide con quello straordinario tropo del pensiero greco arcaico costituito dalla metis preplatonica[33], ma in gran parte, nella sua formulazione moderna, focalizza l’attenzione sull’interazione funzionale fra grandi reti encefaliche la cui connettività funzionale per virtù genetica o per esercizio e cambiamento epigenetico, risulti complessivamente più efficiente.

I ricercatori nel campo dell’intelligenza naturale e artificiale, molto più che in altri settori di ricerca, si sono interrogati sulla concezione culturale, ideologica e personale del loro oggetto di studio e, sebbene raramente siano giunti a conclusioni condivise, hanno contribuito a tenere viva l’attenzione critica su ciò che correntemente si intende quando si tratta questa facoltà del cervello umano. Questa non è la sede per affrontare una disamina sull’argomento, che ho tirato in ballo solo per discutere delle possibili radici psico-antropologiche della relazione tra luce e intelletto che si rintraccia nelle antiche culture generatrici di matrici simboliche, ma solo per notare che, allo stato attuale degli studi, un’esperienza del secolo scorso può ancora esserci utile.

In una rassegna meta-interpretativa ci si rese conto che tutte le teorie dell’intelligenza – oltre un centinaio – potevano essere raggruppate in due classi, ossia quelle che postulavano l’esistenza di un fattore generale (G) da cui facevano dipendere tutte le prestazioni nei compiti sperimentali, e quelle che invece ritenevano che le sintesi prestazionali dipendessero dall’efficienza di singoli e specifici processi cognitivi (s). Al di là del giudizio su quale delle due concezioni fosse più vicina alla realtà funzionale del nostro cervello, la convinzione diffusa dell’esistenza di un fattore G è testimonianza di un modo di concepire la dimensione psichica: un’unica sostanza, un’anima, che esprime come qualità l’intelletto, gli affetti e le virtù morali.

Non è azzardato, nel tentativo di riconoscere la genesi delle idee umane, riportare l’idea dell’intelletto, quale qualità dell’animo, ossia di un’entità psichica coesa e unitaria, alla primordiale percezione che l’uomo ha avuto di sé stesso quale soggetto che risponde con la veglia alla luce del giorno e con il sonno al buio della notte, e riportare invece l’idea dell’intelletto, quale sintesi virtuale e convenzionale di differenti abilità, a una concezione culturalmente appresa e consolidata nei millenni attraverso l’esperienza della scuola, dei compiti dei diversi mestieri e delle attività manuali e pratiche richieste dalla vita quotidiana.

Mi sono chiesto spesso che idea avessero i primitivi dell’intelletto, in quel periodo di millenni che ha preceduto l’epoca in cui la scrittura e la notazione matematica si sono affermate diventando forma mentale collettiva. Senza dubbio, l’idea dell’intelligenza quale abilità in compiti astratti formalizzati nasce in epoca storica, con la scolarizzazione precoce. Nella preistoria vi deve essere stato il riconoscimento di un’abilità mentale della persona[34], distinta dalle doti fisiche di forza, velocità nella corsa, agilità, destrezza in compiti psicomotori quali arrampicarsi sugli alberi e catturare una preda; ma è difficile immaginare come fosse concepita questa qualità della persona, e non possiamo escludere che nella mente dei primitivi fosse equiparata alla determinazione nell’agire e all’efficienza nell’attuazione di propositi e progetti.

Infine, è ragionevole supporre che l’idea stessa di un valore mentale, con ogni probabilità concepito quale parte di una dimensione complessiva ultracorporea, fosse spesso soggettiva, perché è solo con l’organizzazione sociale che porta dai chiefdom alle civiltà, per effetto della potente azione omologatrice della condivisione di un idioma, di leggi, credenze, costumi e tradizioni, che si è giunti all’uniformità di fondo delle idee dell’uomo sull’uomo cui ci ha abituato la storia.

 

7. La luce come stato di coscienza e intelligenza della realtà. Nella dimensione astratta dell’esistente, che accosti l’individualità del soggetto all’oggettività dello spazio concepibile, la coscienza trova riscontro nella luce: come quest’ultima è necessaria per la percezione di ogni cosa, così la coscienza è necessaria per ogni processo psichico intenzionale, volontario, deliberato, quale il pensare, nel suo soffermare la mente su un fatto, su un evento, sul vissuto di una circostanza o nel suo seguire un filo di idee e di concetti, nello sviluppare una riflessione, nel fare piani per il futuro o nell’immaginare in azione le persone protagoniste di una circostanza che potrà o dovrà verificarsi. È un accostamento di senso figurato più vicino all’analogia che alla metafora, e in ogni caso così profondamente radicato in tutte le maggiori culture da potersi considerare alla stregua di uno strumento di comprensione, se non di conoscenza, di valore antropologico.

La luce come consapevolezza attiva della mente presente a sé stessa e capace di comprendere il mondo è sicuramente la figura, intesa come formulazione mentale a metà tra immagine e concetto, più diffusa e facile da reperire nella letteratura e nella saggistica di tutto il mondo e di tutte le epoche, ma subito dopo, per frequenza, troviamo la luce nel linguaggio figurato che allude a significati morali. Anche se la più completa realizzazione di questo valore semantico e la sua massima diffusione si ha attraverso la cultura cristiana che trae origine dalla citata identificazione evangelica, sono innumerevoli gli esempi più antichi.

Quando Platone esorta ad essere indulgenti col bambino che ha paura del buio, perché il vero problema è l’adulto che ha paura della luce, gioca su un fondo di senso metaforico comune evidenziando per contrasto dove è il male: non è certo nella debolezza di temere l’assenza di vita, di bellezza e di energia, ossia la morte simboleggiata dal buio, ma nel temere tutto ciò che, attraverso il nostro intelletto, dà luce alla coscienza e porta noi stessi alla luce.

D’altra parte il senso del “lume di coscienza” inteso come percezione di un’evidenza è profondamente radicato nella nostra cultura ed efficacemente espresso in chiave fideistica in un adagio attribuito a Blaise Pascal: “Dio ha messo nel mondo abbastanza luce per chi vuol credere, ma ha anche lasciato abbastanza ombre per chi non vuol credere”. Questo aforisma è interessante anche perché contiene la correzione in senso cristiano di un antico motto pagano: “Zeus rende stolti coloro che vuol perdere”, tradotto in latino ed erroneamente attribuito da cristiani inconsapevoli a Dio[35]; infatti, il detto riportato dal matematico francese, nel rispetto della vera dottrina del Dio cristiano, evidenzia al contrario le condizioni create per l’esercizio del libero arbitrio.

La luce per metafora è spesso un’energia vitale di bene e di intelletto, come quella intesa da Goethe, quando poeticamente nel romanzo Le Affinità Elettive auspica: “Verrà forse un giorno in cui la luce interiore uscirà da noi, in modo che non avremo più bisogno di altra luce”. Il senso psicologico reso da quello figurato della parola è lo stesso implicitamente inteso nell’esortazione del Budda, celebre presso i popoli orientali: “Siate luce per voi stessi!”

L’identificazione tra luce e coscienza, considerata la sua ubiqua presenza transculturale, è appartenuta con ogni probabilità alle idee matrici originate dall’esperienza primordiale.

Se usciamo dalle suggestioni del pensiero analogico, metaforico e immaginifico che ha costituito la radice più profonda della nostra cultura ma si è rivelato privo di potere conoscitivo, e per concepire la luce torniamo all’impiego dell’intelletto nella sua forma più efficace, ossia quella scientifica già adottata all’inizio di questa riflessione per introdurre la visione corrente, possiamo notare quanto oggi ci stiamo allontanando dal semplice approccio attraverso quella branca della fisica classica denominata elettromagnetismo, che ci ha permesso di spiegare fenomeni naturali, quali appunto la luce, l’elettricità e il magnetismo.

Oggi conosciamo le quattro interazioni fondamentali della natura: l’elettromagnetismo, l’interazione debole, l’interazione forte e la gravità, e sappiamo che sono tutte mediate da bosoni detti bosoni di gauge o bosoni elementari[36]. La fisica delle particelle e la dimensione conoscitiva cui si accede attraverso questa scienza possono consentirci un’intelligenza profonda della realtà di tutti i fenomeni fisici cui appartiene la luce, ma non aggiunge molto alla comprensione dei multiformi aspetti della nostra esperienza della radiazione solare.

Più vicino alle esigenze conoscitive della dimensione empirica è il sapere neuroscientifico che ha spiegato i ritmi circadiani, circamensili e circannuali nei termini della genetica, della biologia molecolare e della fisiologia dell’orologio biologico cerebrale sito nel nucleo soprachiasmatico dell’ipotalamo: un meraviglioso dispositivo che sincronizza sulla luce naturale i ritmi di tutto l’organismo a partire da antiche memorie incise all’alba della filogenesi dalla luce nel DNA degli organismi terrestri. Un sapere che ci ha aiutato a comprendere le basi della depressione ricorrente nel disturbo affettivo stagionale, ossia una patologia che ci ricorda il nostro bisogno di luce per l’equilibrio psichico: quella stessa radiazione solare che converte nella pelle i precursori della vitamina D in molecole attive per il trofismo delle ossa, si è rivelata indispensabile per innescare sequenze di eventi biologici che si traducono in modificazioni neuroendocrine e di regolazione genica necessari all’equilibrio psichico.

L’associazione della luce a vissuti positivi non ha quindi solo la base psicologica della memoria del piacere percettivo, ma anche una profonda origine biologica negli effetti prodotti sull’organismo e rilevati dal sistema nervoso centrale. Il valore biologico della luce è una nozione classica consolidata da decenni nel campo degli studi evoluzionistici, e Gerald Edelman, nel progettare i suoi automi “Darwin” (I-IV) e “Nomad”, dotati di reti neurali artificiali non esplicitamente programmate ma in grado di differenziarsi per autoselezione operata grazie a un sistema di valori biologici, impostò la luce come valore apicale, in particolare l’incidenza dei raggi luminosi al centro della retina artificiale dell’automa.

La lunga storia evolutiva degli organismi alla presenza della luce si può riconoscere in innumerevoli tracce, ma a me piace menzionare un aspetto funzionale di una realtà umana della nostra esperienza comune. Quante volte vediamo che a una persona, per effetto di gioia, entusiasmo o lieta sorpresa le si illumina il volto? Chi ha una ricca vita sociale lo vede spesso. Si “illumina il volto” è un’espressione metaforica adoperata da secoli dagli scrittori e dai noi stessi nel linguaggio quotidiano, e scientificamente sappiamo che ciò che accade, anche per il rilascio di endorfine, si sostanzia principalmente nel contemporaneo distendersi dei muscoli del viso nelle loro inserzioni sottocutanee con l’effetto di creare una superficie più liscia e continua, così come appare nell’immersione in una luce naturale diffusa. Ma non è solo un’analogia descrittiva: quando il cervello illumina il volto per uno stato affettivo, le pupille vanno in miosi, cioè rispondono con un riflesso di riduzione del diametro del foro pupillare come accade quando ci esponiamo realmente alla luce: lo stato psicofisico generato dall’interno ha attinto ad un antico paradigma biologico di reazione positiva alla luce.

 

8. Conclusioni. Concludendo queste riflessioni, riconosco all’impronta lasciata dalla luce nella realtà biologica un ruolo di fondamentale importanza nella genesi delle radici di senso collegate al divino e rintracciabili nella storia etimologica delle parole. Lo studio biologico, così come l’intelligenza impiegata per conoscere la fisica della luce, ci hanno consentito di compiere enormi passi in avanti rispetto al passato, ma se sul valore della luce siamo tutti d’accordo, al punto di condividere metafore ormai considerate universali, sul rapporto col divino siamo ancora divisi come nelle epoche passate. Quando Leone X fece coincidere il giorno della celebrazione del Natale con la festa del sole dei Romani antichi, intendeva sostituire l’astro materiale con quello simbolico trascendente, immaginando un passaggio di consegne dal materialismo del mondo pagano alla spiritualità di quello cristiano. Ma il cambiamento non fu totale, né è poi diventato globale, così che ancora oggi, in materia di luce, abbiamo coloro che si fermano al sole e coloro che credono nella luce divina. Tuttavia, almeno per ciò che concerne l’associazione alla gioia, i versi che seguono del profeta Isaia conservano un’approvazione universale, e allora mi congedo con queste parole evocatrici di speranza:

 

Luce e gioia.

Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce;

su coloro che abitavano in terra tenebrosa una grande luce rifulse.

Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia[37].

 

 

 

L’autore della nota invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giuseppe Perrella

BM&L-18 giugno 2022

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] J. Clerk Maxwell, A Dynamical Theory of Electromagnetic Field. Philosophical Transaction of the Royal Society of London 155, 459-512, 1865.

[2] Le onde elettromagnetiche (OE) sono emesse da particelle cariche accelerate e possono per questo interagire con altre particelle cariche; tutti i corpi contengono particelle cariche in movimento ed emettono spontaneamente OE che possono realizzare scambi di energia tra corpi per irraggiamento. In meccanica quantistica si considera la radiazione elettromagnetica costituita da fotoni, particelle elementari con massa nulla a riposo, che rappresentano i quanti del campo elettromagnetico responsabili delle interazioni. [V. nobelprize.org per un saggio sulla duplice natura della luce].

[3] Genesi 1, 4-5.

[4] Il professore Aniello Gentile, che ho avuto il privilegio di conoscere e dal quale ho ricevuto preziosi insegnamenti, ereditò l’ultima cattedra di sanscrito d’Europa presso l’Università Federico II, e rimase, dopo la soppressione della cattedra, tra i massimi esperti della lingua indo-europea, matrice degli idiomi classici e considerata la più antica parlata continentale fino alla scoperta delle origini dell’antico Vascone.

[5] Giorgio Raimondo Cardona, Storia Universale della Scrittura, p. 63, Edizione CDE su licenza Mondadori, Milano 1986.

[6] Cfr. S. Natoli, Parole della Filosofia o dell’arte di meditare, p. 142, Feltrinelli, Milano 2004.

[7] Per riflettere sul peso di questa differenza sono utili i contenuti del saggio Essere e Senso di Monica Lanfredini.

[8] Giovanni 1, 9.

[9] Giovanni 8, 12.

[10] Yehuda era il nome del padre, originario di Cordova, la città di Seneca.

[11] Shelomoh Ibn Gabirol, Fons Vitae, p. 312, Il Melangolo, Genova 2001.

[12] Shelomoh Ibn Gabirol, op. cit., idem.

[13] Shelomoh Ibn Gabirol, op. cit., idem. Il legame tra luce e parola della cultura ebraico-cristiana lascia una profonda traccia nella nostra cultura, tanto che anche un campione dell’anticlericalismo ottocentesco, come Giovanni Battista Niccolini, scriveva: “La parola è luce dell’umanità, e la luce è la parola della natura”.

[14] Hans von Arnim (a cura di) Stoicorum Veterum Fragmenta, IV voll., II, Fr. (B) 54, 1903-1924, ripreso nella nuova edizione riveduta (la precedente era di Rusconi, Milano 1998) di Roberto Radice, Stoici antichi. Tutti i frammenti secondo la raccolta di Hans von Armin (presentazione di Giovanni Reale), Bompiani, Milano 2014.

[15] Cfr. S. Natoli, op. cit., p. 144.

[16] È interessante notare che rarissimamente usufruivano di quei testi gli Arabi di madre lingua. Un saggio storico di spessore fornisce una dettagliata documentazione biografica degli eccellenti medici ebrei d’Europa, eredi di quelli del Medioevo e del Rinascimento, e che dal Settecento al Novecento hanno dato un contributo straordinario alla storia della medicina: Samuel Kottek & Donata Vercelli, I primi dei giusti. KOS II, 14, 65-94, maggio 1985.

[17] Si trova nei registri parrochiali di Stradbroke il suo atto battesimale col nome di Robert Grosseteste, ma non figurano i genitori in alcun registro parrocchiale inglese, dal che si deduce la loro provenienza dall’Italia Centro-Settentrionale, dove il cognome Grossatesta era molto diffuso. Ho riportato questa ipotesi, desunta da documenti consultati da Carl Zimmer, nella raccolta di saggi dal titolo “Specchio della psiche e della civiltà”.

[18] Cfr. Alistair Cameron Crombie, Grosseteste’s Position in the History of Science, in Robert Grosseteste, Scholar and Bishop, Claredon Press, Oxford 1955.

[19] La definizione “metafisica della luce” fu coniata nel 1916 da Clemens Baeumker per indicare un contesto speculativo filosofico-teologico medievale con influssi neoplatonici (Plotino, Proclo), teologici (Agostino), arabi (Avicenna) ed ebraici (Avicebron, ossia Ibn Gabirol) di cui Roberto Grossatesta è considerato il maggior esponente.

[20] Nell’interpretazione del De Luce come opera filosofica, alcuni hanno visto il tentativo di integrare elementi della filosofia di Aristotele in un pensiero cristiano di impronta neoplatonica e caratterizzato dal seguire il ragionamento matematico come Platone.

[21] Genesi 1, 1-3. Grossatesta inaugura una tradizione cristiana inglese della luce che ritroviamo quattro secoli dopo in Francesco Bacone che, nelle formule del suo empirismo scientifico, ricorda: “La prima creatura di Dio fu la luce”.

[22] Roberto Grossatesta, Metafisica della luce, p. 113, Rusconi, Milano 1986.

[23] Le linee, gli angoli e le figure in Roberto Grossatesta, Metafisica della luce, op. cit., p. 137.

[24] Le linee, gli angoli e le figure in Roberto Grossatesta, Metafisica della luce, op. cit., p. 129.

[25] Cfr. Giuseppe Perrella, Specchio della psiche e della civiltà. (Quindicesima parte) § 31. Galileo Galilei cerca i codici della realtà non l’essenza della verità e trova il bello nella ragione che spiega il mistero e dona potere. (Si accede dalla copertina del sito con un click sulla scritta Specchio della psiche e della civiltà e, all’apparire dell’intestazione, scorrendo in basso fino a “Quindicesima parte § 31”). Il saggio è anche pubblicato in “NOTE E NOTIZIE”: Note e Notizie 25-09-21 Specchio della psiche e della civiltà – quindicesima parte.

[26] Reso celebre come Alano delle Isole da Umberto Eco per una citazione ne Il nome della rosa: “Alano delle Isole diceva che omnis mundi creatura quasi liber et pictura nobis est in speculum e pensava alla inesausta riserva di simboli con cui Dio, attraverso le sue creature, ci parla della vita eterna”. Tratto dall’edizione digitale Giunti (sull’originale Bompiani) del 2018.

[27] Cit. in S. Natoli, op. cit., p. 144.

[28] Gli stessi che troviamo incisi sulla porta dell’Inferno (Inf., III: 5-6) ad indicare la presenza di Dio anche nel luogo più basso dell’universo.

[29] Dante Alighieri, Commedia, vol. III, Paradiso, p. 11, cfr. note con commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, I Meridiani Collezione, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2006.

[30] Anna Maria Chiavacci Leonardi in Dante Alighieri, Commedia, vol. III, Paradiso, op. cit. p. 833.

[31] Proverbi 8, 22-31.

[32] S. Natoli, op. cit., p. 149.

[33] Si veda Note e Notizie 17-10-20 Metis alle origini del concetto di intelligenza.

[34] La maggior parte degli antropologi impegnata nello studio di popolazioni che vivono allo stato primitivo, suppone che, come costoro, i nostri progenitori ancestrali immaginavano nelle persone la presenza o l’assenza di spiriti particolari responsabili delle singole abilità.

[35] In latino era così: quos vult Iupiter perdere, dementat prius; ma ne fu creata una versione cristiana, di fatto eretica: quos Deus perdere vult, dementat prius. L’errore di crederla una formula cristiana è di Lev Tolstoj, che la usa in Guerra e Pace per riferirsi a Napoleone Bonaparte quando intraprende la campagna di Russia. Questo antecedente crea un uso diffuso, seguito anche dagli sceneggiatori del film di Dino Risi Pane, amore e…, che fanno rivolgere la frase dal parroco don Matteo (Mario Carotenuto) all’attempato fratello (Vittorio De Sica) che vuole sposare una giovane pescivendola (Sophia Loren).

[36] Il nome viene da quello del fisico indiano Satyendranath Bose, come quello dei fermioni viene da Enrico Fermi. Bosoni e fermioni costituiscono le due famiglie fondamentali in cui si dividono le particelle subatomiche. Il bosone è una particella che obbedisce alla statistica di Bose-Einstein e ha spin intero, secondo il teorema spin-statistica, e, a differenza del fermione, non obbedisce al principio di esclusione di Pauli, secondo cui uno stato quantico può essere occupato da non più di una particella, e quindi molti bosoni possono occupare uno stesso stato quantico, come accade nella luce laser per i fotoni, che sono un tipo di bosoni di gauge.

[37] Isaia 9, 1-2.